La “luce”, come anche l’“acqua viva”, è elemento fondamentale dell’esistenza umana e dell’esperienza cristiana. Senza luce non c’è vita. Essa è la prima creatura uscita dalle sapienti mani del Creatore. Sin dall’inizio della creazione, la lotta tra “luce” e “tenebra” è l’avvenimento decisivo del mondo (cf Gn 1,1-5). Come la tenebra ricopriva l’abisso prima dell’opera della creazione, così nel corso della storia continua ad avvolgere l’uomo con la sua opacità. Dio, che creò il primo mattino, continua sempre la sua opera di salvezza nel dono del Figlio, Logos-Phos. L’uomo, “cieco dalla nascita”, simboleggia la condizione nativa del genere umano; il dono della vista è simbolo dell’umanità illuminata e trasfigurata. Nel regno della luce si entra attraverso la fede e il sacramento del battesimo. Già nella lettera agli Ebrei (6,4), e poi nella tradizione, specialmente orientale, la Chiesa primitiva chiamava il battesimo “illuminazione” e i battezzati “illuminati”. Chi vive bendato dalla non visione dell’orgoglio intellettuale, dall’autoesaltazione della ragione, dal materialismo pratico, dall’illusione dell’idolatria, non potrà mai vedere la luce della Rivelazione. Il battesimo strappa le bende della non visione e rigenera a vita nuova, trasfigurando il battezzato in luce di gloria. Giovanni nel suo Vangelo (cf Gv 9,1-41) ci racconta che quel giorno Gesù, passando, vide un uomo cieco dalla nascita (v. 1). Il lungo racconto inizia con tre gesti di Cristo, che sono poi gli stessi che sperimenta ogni battezzato: è Gesù che vede, viene e agisce. I discepoli, invece di vedere la luce, reagiscono volendo spiegare l’origine del buio visivo, cercandone la causa nel peccato. Quell’uomo non è cieco dalla nascita perché è nel peccato, non lo è né lui né i suoi familiari. Gesù purifica l’idea pagana che crede a una concezione fatalista e determinista del mondo. Dio vuole e crea soltanto il bene. Gesù, dopo essersi definito Luce del mondo (v. 5), sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va a lavarti nella piscina di Siloe” – che significa Inviato (vv. 6-7). Egli dona la vista al cieco per rivelare un progetto ben più vasto: realizzare la missione di salvezza affidatagli dal Padre. Gesù opera il prodigio perché in lui si manifestino le opere di Dio (cf v. 3). La luce non è soltanto quella che gli occhi vedono, essa è innanzitutto la fede che realizza la comunione personale con Colui che è la Luce. Gesù compie il gesto “guaritore” in uno dei luoghi in cui si svolge solitamente la festa delle Capanne. La piscina di Siloe era una vasca collegata, attraverso una galleria, alle sorgenti di Ghicon (cf Is 8,6). La simbologia è chiara: Gesù, l’Inviato del Padre, invia il cieco, che ormai vede, a ritrovare il popolo in festa alle sorgenti, appunto, dell’Inviato. Dall’incontro, scoppia l’opposizione tra quello che si sa e quello che non si sa. Il cieco, nella sua onestà di coscienza, racconta soltanto quello che ha visto. In seguito, i suoi genitori si rifiuteranno di “dire” rimanendo in una prudente neutralità. (vv. 20-21). A loro volta, i farisei infastiditi piegano la verità a favore dei loro pregiudizi e giudicano negando l’evidenza dei fatti e accusando quell’uomo di essere un peccatore (vv. 24.29). La guarigione avviene in giorno di sabato. Il sistema farisaico esclude per principio la possibilità di compiere un prodigio violando la legge del sabato. Questo è, evidentemente, un pretesto per accusare Gesù d’infedeltà alla legge con la giustificazione per rifiutarlo. Gesù, invece, nel giorno consacrato al Signore, compie un gesto di squisita misericordia, provocando il dissenso tra i farisei. Questi, intanto, cercano di convincere il cieco a non testimoniare a favore di Gesù. Il cieco guarito, invece, progredendo nella fede, lancia il suo grido credente chiamandolo Profeta. Precedentemente, lo aveva chiamato per nome: Gesù (v. 11), poi il Cristo (v. 22), colui che viene da Dio (v. 33), il Figlio dell’uomo (v. 35), il Signore in cui si può credere (v. 38). Mentre i suoi occhi si aprono alla vista, il suo cuore si spalanca per ricevere la luce della fede. La luce non è soltanto quella che gli occhi vedono, ma, grazie alla fede, è comunione personale e intima con Cristo, Luce del mondo. I farisei, intanto, continuano a negare l’evidenza dei fatti e, nell’accanimento della cattiva fede, vogliono espellere dalla sinagoga chiunque abbia riconosciuto Gesù come il Cristo (cf vv. 22-23). Chi non vede acquista la vista, mentre chi crede di vedere diventa cieco. Socrate, il sapiente che sapeva di non sapere, davanti al “sinedrio” di Atene, tenne il discorso che lo accusava in nome di chi presumeva di sapere. Quelli del sinedrio sono convinti di sapere e colpiscono tutti quelli che osano mettere in dubbio questa certezza. Presumere di non essere ciechi ma di vedere è l’errore più lugubre che blocca la via alla salvezza e chiude il cuore ad accogliere il dono della fede. Intanto i farisei continuano ad accanirsi ancora contro il cieco e gli replicano: “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”. E lo cacciano fuori (v. 34). Per diventare credenti, non importa essere cacciati via dalla sinagoga, e non interessa di quale sinagoga si tratti! Il Vangelo ci insegna che Gesù si rivela soltanto a colui che soffre per rendere testimonianza alla verità. Il cristiano, purtroppo, rischia di dirsi discepolo di Cristo alla stessa maniera con cui i farisei si professavano discepoli di Mosè, cioè per la ricerca della sicurezza in un “sistema”. Il nome di Gesù Cristo, infatti, può essere usato come baluardo di menzogna per reprimere chi minaccia un determinato sistema e cacciare via dalla “sinagoga” chi usa il Vangelo come testimonianza della luce di verità e della libertà di coscienza. Gesù, quando seppe che avevano espulso dalla sinagoga il cieco beneficato, volle incontralo di nuovo perché egli aveva reso testimonianza alla verità dei fatti. Ed ecco il dialogo con cui la fede del rinato alla luce viene professata pubblicamente: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. Egli rispose: “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. Gli disse Gesù: “Lo hai visto: è colui che parla con te”. Ed egli disse: “Credo, Signore!”. E si prostrò dinanzi a lui (vv. 35-38). Credere adorando è il gesto liturgico, non delegabile ad altri, con cui il battezzato professa coscientemente la sua fede, nella luce della speranza alimentata dall’amore. I farisei, presuntuosi, si ostinano ancora a dire: Noi vediamo. Gesù li condanna dicendo che il loro peccato rimane. Il verbo “vedere” in Giovanni ha un duplice significato. Uno, fisico: il cieco andò, si lavò e tornò che ci vedeva; l’altro spirituale: i farisei che dicono di vedere, diventano ciechi e rimangono nel peccato (cf v. 41). “Vedere” e “credere” sono in correlazione tra “luce” e “fede”. Il Messia è venuto a distruggere il sistema della coscienza cieca, non col metodo della contrapposizione tra ricchi e poveri, tra chi detiene il “potere” e chi deve “obbedire”, ma con lo svegliare la coscienza attraverso lo splendore della verità. Alcuni farisei chiedono a Gesù: Siamo ciechi anche noi? (v. 40). Questo interrogativo non è un dubbio che chiede luce, ma una provocazione da parte chi crede di essere nella luce. Gesù, col tono del vero Maestro, dà il suo giudizio e risponde: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane (v. 41). Esiste, infatti, una cecità che ha le sue radici nel peccato e si annida nel cuore degli pseudo-vedenti in cui l’orgoglio e l’ostinazione rendono impossibile ogni visione di Luce. La drammatica lotta quotidiana è sempre tra Luce e tenebra, tra Verità e menzogna, tra chi vive nella luce dell’evangelica profezia e chi si chiude nella presunzione dei propri “punti di vista” limitati e talvolta errati, credendoli verità assoluta. La Verità è Luce, la menzogna è tenebra. La Verità ci fa liberi, la menzogna ci rende schiavi. La Verità ci fa vivere nel divino dono della libertà di coscienza, la menzogna ci intrufola nelle diaboliche sette dell’appartenenza che distruggono la dignità dell’uomo. La cecità di certi sistemi, infatti, consiste nel fatto che i giudizi sono già tutti predeterminati e la novità della profezia non è prevista, anzi, non esiste, non deve esistere perché sconvolge il sistema intoccabile. Da qui si scatena l’eterno conflitto tra un sistema sempre uguale e la novità della scoperta. La scienza ci istruisce che un “puro fatto” fa crollare un sistema. Il sistema tolemaico è crollato perché alcune macchioline offuscavano il cannocchiale di Galileo. Il sistema farisaico, per principio, esclude la possibilità che si possa compiere un prodigio violando la legge. Il cieco, pur avendo riacquistato il dono della vista e quello inestimabile della fede, per i ciechi farisei avrebbe dovuto dire di essere ancora cieco: il “sistema” perfido che annulla l’evidenza dei fatti reali! Ecco il peccato contro la Luce condannato da Cristo! Per i battezzati, l’“illuminazione” non è soltanto “istruzione catechetica”. È anche quella, ma insieme alla conoscenza misteriosa arricchita da carismi della profezia che danno al credente un’esistenza sempre nuova. Per chi ha ricevuto il dono della fede, l’“illuminazione” non si riduce alla sola luce che splende negli occhi, essa è grazia che ricolma il cuore e trasfigura tutto l’essere nel sinfonico canto dell’Amore. Il cristiano, abbagliato dallo splendore di Cristo-Luce, diventa anche lui luce se si comporta da figlio della Luce: Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità (Ef 5, 8-9).