(Elisa Pinesich di Ultima Voce) – Giovedì 15 la Corte di giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che, in determinati casi, è legittimo vietare il velo islamico sul posto di lavoro.
Il comunicato stampa riporta:
Il divieto di indossare sul luogo di lavoro qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose può essere giustificato dall’esigenza del datore di lavoro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali.
Tuttavia, tale giustificazione deve rispondere a un’esigenza reale del datore di lavoro e, nell’ambito della conciliazione dei diritti e interessi in gioco, i giudici nazionali possono tener conto del contesto specifico del rispettivo Stato membro e, in particolare, delle disposizioni nazionali più favorevoli per quanto concerne la tutela della libertà di religione.
Perché vietare il velo islamico a lavoro
La sentenza nasce da due casi singoli, quelli di due donne musulmane impiegate presso società di diritto tedesco. Una, identificata come IX, era educatrice specializzata presso la WABE eV, associazione che gestisce numerosi asili. L’altra, MJ, lavorava da MH Müller Handels GmbH, società che gestisce drogherie, come consulente di vendita e cassiera. Entrambe, a seguito della decisione di iniziare ad indossare il velo islamico a lavoro oltre che in privato, hanno subito ammonimenti e sospensioni. Hanno quindi deciso di fare ricorso in Germania, ed in seguito la questione è passata alla Corte di giustizia europea.
Causa C‑804/18
La WABE eV si definisce apartitica e aconfessionale. Un provvedimento interno introdotto nel 2018 stabilisce l’adozione di una posizione di neutralità. Una scelta presa nel rispetto dell’articolo 14 della Carta dei diritti fondamentali, per preservare il diritto dei genitori ad educare ed istruire i figli secondo le proprie convinzioni. Ne consegue che “Sul luogo di lavoro, alla presenza di genitori, bambini o terzi, i collaboratori non possono indossare nessun segno visibile relativo alle loro convinzioni politiche, personali o religiose”, che si tratti di crocifissi, veli o kippah. Infatti, la WABE aveva già fatto togliere ad una dipendente un ciondolo a forma di croce. Questo quindi sembrerebbe non essere un caso di discriminazione diretta, dato che non è limitato alla religione musulmana.
Causa C‑341/19
La MH, invece, ha introdotto nel 2016 una direttiva interna “che vietava l’uso, sul luogo di lavoro, di segni vistosi e di grandi dimensioni di natura religiosa, politica o filosofica”. Questo caso, dunque, appare più controverso, perché il divieto sembra indirizzato a determinate religioni che prevedono un certo tipo di abbigliamento. Al contrario della WABE, la MH ha introdotto una direttiva discriminatoria, per la quale un velo islamico a lavoro non è ammesso, ma un crocifisso al collo sì. Questo, a seconda del datore di lavoro, per evitare conflitti all’interno della società.
Il velo islamico e l’Europa
Non è la prima volta in Europa che a una donna musulmana viene intimato di togliersi il velo. Già nel 2017 la Corte di giustizia europea si era espressa a riguardo, in risposta alle cause di Samira Achbita e di Asma Bougnaoui.
Non costituisce una discriminazione diretta la norma interna di un’impresa che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso.
Tuttavia, in mancanza di siffatta norma, la volontà di un datore di lavoro di tener conto del desiderio del cliente che i suoi servizi non siano più prestati da una dipendente che indossa un velo islamico non può essere considerata un requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa tale da escludere l’esistenza di una discriminazione.
Questa la conclusione dell’epoca. Viene tutelata la libertà d’impresa (art. 16 della Carta dei diritti fondamentali) del datore di lavoro a discapito della libertà di religione (art. 10 della Carta dei diritti fondamentali) dei dipendenti. Succede spesso nelle aziende che, solo a seguito della scelta di una donna di indossare il velo nonostante le critiche del datore di lavoro, viene scritta e aggiunta una direttiva che ne introduce il divieto.
Perché proprio il velo islamico…
La neutralità può essere giustificata, ovviamente, in ambiti nel quale è imprescindibile. Tuttavia, il più delle volte viene utilizzata come scusa. Che sia perché la religione musulmana è unicamente associata al terrorismo? O perché si pensa che le donne musulmane siano incapaci di lavorare dato che non riescono neanche ad “opporsi” all’”obbligo” del velo?
Sono tanti gli stereotipi legati a questa religione, e purtroppo l’intolleranza continua a dilagare in Europa. L’introduzione di queste risoluzioni non può che peggiorare la condizione delle donne musulmane, sempre più scoraggiate dal mettersi in gioco in ambito lavorativo, violate da persone che non comprendono la loro religione.
…e non un crocifisso al collo?
Perché se il problema fosse stato un crocifisso, la questione sarebbe stata alquanto diversa. Non succede quasi mai che a un credente cristiano venga chiesto di togliersi la croce dal collo sul luogo di lavoro. Essendo il velo islamico più vistoso invece, ed essendo associato all’idea di sottomissione da parte dell’uomo nei confronti della donna, la questione si fa più complicata.
Ovviamente ci sono casi e casi. È vero che ci sono uomini che picchiano le proprie mogli e figlie se queste si rifiutano di indossare il velo, ma è anche vero che per molte donne quella di indossare il velo è una scelta felice. Risulta perciò discriminatorio il divieto del velo islamico a lavoro, soprattutto dato che è dal Corano, libro sacro dell’Islam, che le donne musulmane ricevono l’”ordine” di indossare il velo. Un esempio lampante di donna che sceglie il velo è Tasnim Ali, che con i suoi TikTok sta facendo conoscere l’Islam a tutta Italia.