(Lia Celi di Chiamami Città) – Dov’è la sliding door che può trasformare conflitto generazionale e culturale in un’orribile tragedia o in un’opportunità per comprendersi? Domanda inevitabile quando scopriamo dalle cronache di questi giorni che anche Rimini ha rischiato un caso Saman Abbas.
Una ragazza musulmana che voleva vivere all’occidentale e rifiutava un matrimonio combinato aveva subito dalla famiglia violenze fisiche e psicologiche, tanto da spingerla a rifugiarsi in una struttura e a denunciare genitori e fratelli.
Fino a qui, il copione è quasi lo stesso di Novellara, salvo che per il paese d’origine dei protagonisti – la famiglia Abbas è pakistana, il caso riminese riguarda immigrati tunisini -, e per l’età delle due ragazze: Saman ha (finché non verrà ritrovato il suo corpo usiamo il tempo presente) diciotto anni, mentre l’altra giovane all’epoca dei fatti ne aveva circa ventidue.
Non che per una cultura arretrata e patriarcale l’età di una ragazza faccia molta differenza, visto che è sempre soggetta prima al padre e poi al marito, ma dovrebbe farla per la nostra società. Saman era sparita dal radar dei servizi scolastici dopo l’esame di terza media, brillantemente superato malgrado fosse arrivata in Italia da poco. I genitori avevano rifiutato di mandarla alle superiori in città, ma poi non l’avevano nemmeno iscritta all’istituto professionale più vicino alla zona di campagna dove risiedevano, e malgrado Saman non avesse ancora assolto l’obbligo scolastico nessuno era andato a chiedere sue notizie.
Se le autorità si fossero interessate a lei prima, avrebbero scoperto che veniva tenuta segregata in casa, e i servizi sociali sarebbero intervenuti tempestivamente, salvandole l’adolescenza e forse anche la vita. Invece Saman ha dovuto aspettare i diciotto anni e fare tutto da sola: quando i genitori le avevano imposto il matrimonio con un cugino, lo scorso dicembre, li aveva denunciati ed era stata trasferita in una comunità nel Bolognese. Poi, a quanto sembra, la madre è riuscita ad attirarla con dolci parole e false promesse a casa, dove Saman ha trovato i suoi carnefici.
Ora, anche la ragazza tunisina, dalla comunità protetta in cui viveva, aveva riallacciato i contatti con i genitori, ma qui sembra che la voglia di dialogo sia stata sincera. e piano piano ha portato non solo a un perdono, ma anche a un rientro a casa e a un impegno a rispettare lo stile di vita liberamente scelto dalla ragazza. Di più: lei ha ritirato le denunce, cercando di alleggerire il più possibile la posizione giudiziaria dei familiari, cosicché in aula le violenze arrecatele dai fratelli sono state derubricate a «episodi isolati». Assoluzione e lieto fine, almeno così sembra.
Senza fare di tutta l’erba un fascio – parafrasando Tolstoj, tutte le famiglie felici si assomigliano, quelle disfunzionali lo sono ognuna a modo suo, a qualunque religione appartengano – spero che questa ragazza coraggiosa, che non vuole rinunciare alle sue radici, ma nemmeno alla sua autonomia, non venga lasciata sola dietro il sipario troppo rosa che sembra essere sceso sulla sua vicenda. Perché non basta una sentenza a cancellare secoli di sessismo, ma, come dimostra il caso Saman, basta un’ora per distruggere un sogno di libertà.