L’evoluzione delle società democratiche contemporanee suggerisce che sia giunto il momento di ripensare alla laicità nel suo senso e nei suoi fini. Nonostante la questione del rapporto tra potere politico e potere spirituale sia stata centrale da Sant’Agostino fino all’età moderna, le sfide del presente hanno una natura diversa. Sebbene si pensi in prima istanza che l’oggetto di un regime laico sia la relazione appropriata tra Stato e religioni, il suo compito più grande e urgente è far sì che oggi gli Stati democratici si adattino in modo adeguato alla profonda diversità morale e spirituale che esiste all’interno dei loro confini. Infatti non si vedono ragioni di principio per isolare la religione, relegandola in una categoria a parte rispetto alle altre concezioni del mondo e del bene. Ma i rapporti tra persone religiose e non religiose sono spesso segnati da incomprensione, da sfiducia, a volte anche da intolleranza reciproca. Difficilmente atei e agnostici riescono a concepire che vi siano individui che aderiscono ancora oggi a credenze religiose la cui verità non può essere stabilita in modo scientifico. Persone religiose pensano che i materialisti, nel senso filosofico del termine, siano incapaci di condurre un’autentica vita morale, di abbracciare cause che vadano oltre il proprio interesse egoistico e che di conseguenza abbiano una concezione riduttiva dell’esistenza umana. I qui pro quo e i fraintendimenti riguardano a volte gruppi specifici. Molti considerano l’Islam intrinsecamente incompatibile con i valori democratici e liberali. Alcuni islamisti considerano la cultura occidentale irrimediabilmente vile e corrotta.
Tuttavia, la diversità morale e religiosa è una caratteristica strutturale e, per quanto si può giudicare, permanente delle società democratiche. Persone che adottano rappresentazioni del mondo e schemi di valori differenti, a volte inconciliabili, devono imparare a cooperare e a risolvere i propri dissidi. La cooperazione sociale nelle società differenziate trova origine nella possibilità di accordo tra cittadini ragionevoli sui principi di base dell’associazione politica. La stabilità e la coesione di queste società dipendono così dalla volontà dei cittadini, che hanno concezioni del bene divergenti, di accettare l’autorità dei principi comuni che fondano le istituzioni politiche. In un certo senso si tratta di uno sviluppo dell’ideale di tolleranza che ha permesso di porre fine alle guerre di religione. Sembra ragionevole pensare che un’etica del dialogo che rispetti le differenti prospettive metafisiche e morali sia la migliore per sostenere la morale politica minima o il «consenso per intersezione». Ma come conciliare quest’etica del dialogo col fatto che gli Stati liberali e democratici si definiscono come società aperte, ossia società nelle quali regna la libertà di espressione?
Come ha sottolineato Karl Popper, è proprio l’istituzionalizzazione della libertà di pensiero e di espressione che protegge queste società dalla stagnazione e dalla tentazione di chiudersi in loro stesse. In questo modo le persone religiose vengono puntualmente esposte a punti di vista che rimettono in questione la validità dei propri quadri di riferimento o li irridono.
Alcune opere artistiche – pensiamo ai Versetti satanici di Salman Rushdie, alle vignette su Maometto su un quotidiano danese e ai film di Martin Scorsese e Mel Gibson su Cristo – sono infatti considerate dai credenti offensive, quando non esplicitamente blasfeme. Dobbiamo limitare la libertà di espressione in nome del rispetto verso ciò che pertiene, per alcuni credenti, alla sfera del sacro? Non siamo di questo avviso.
Salvo alcuni flagranti casi di diffamazione o di incitamento all’odio, lo Stato non può restringere la libertà di espressione di alcuni con la scusa che delle idee o rappresentazioni finiscano per profanare quello che, per altri, è sacro.
Lo Stato pluralista non può adottare né l’ontologia generalista, secondo la quale l’universo deve essere compreso nei termini della diade sacro-profano, né una concezione specifica del sacro. Non si vorrebbe certo vivere in una società in cui Rushdie o Richard Dawkins siano censurati.
Così come la libertà di religione non comporta il diritto di non essere esposti a simboli religiosi, il prezzo da pagare per vivere in una società che tutela l’esercizio delle libertà di coscienza e d’espressione è quello di accettare di essere esposti a credenze e a pratiche che giudichiamo false, ridicole o offensive. Posto questo, quando si tratta della pubblicazione di testi o di contenuti artistici, non sarà auspicabile che si cerchi innanzitutto di comprendere come il nostro atto verrà percepito dagli altri e di anticipare il suo impatto sul legame sociale? Mentre le allusioni ironiche di Rushdie nei Versetti satanici sono al centro di un’opera che offre un ritratto penetrante della condizione umana nell’epoca della globalizzazione, è probabile che la ripubblicazione delle vignette su Maometto non abbia fatto altro che rinfocolare il conflitto.
Allo stesso modo, è possibile per i capi religiosi fornire indicazioni su come le religioni ci diano accesso a un modo unico di abitare il mondo moderno, senza per questo lasciare intendere che una vita condotta secondo una visione secolare del mondo e del bene sia inevitabilmente incompleta o corrotta. Fatto interessante, i due filosofi contemporanei più legati alla ripresa del razionalismo kantiano – John Rawls e Jürgen Habermas – sono entrambi giunti alla conclusione, dopo aver sostenuto concezioni più restrittive, che le prospettive religiose siano fonti morali che possono contribuire in modo significativo all’approfondimento della cultura democratica.
Jocelyn Maclure e Charles Taylor