Iraq – L’ultimatum del califfo Abu Bakr Al Baghdadi lascia tre possibilità ai pochi cristiani rimasti ancora a Mosul. Una paginetta per spiegare che, in base alle leggi coraniche, possono vivere nel risorto Califfato solo a patto di pagare la jizya, la pesante tassa che grava sugli infedeli. Il comunicato, emesso giovedì 17 luglio, si rivolge a «tutti i cristiani» e dava tempo fino a mezzogiorno di ieri per la scelta fra le opzioni, riassunte brutalmente: uno, islam; due, jizya; tre, spada. Tutti coloro che non sceglievano nessuna delle tre avevano tempo «fino a mezzogiorno di sabato per andare via». L’imposizione della jizya GIORDANO STABILE Il marchio: la lettera «n» Le case ancora abitate da cristiani a Mosul vengono segnate con una «n» rossa, da «nazraniy», un termine dispregiativo per indicare i cristiani. La «marchiatura» (sopra) cominciata subito dopo la conquista della città da parte delle milizie dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), poi divenuto Stato islamico: i proprietari vengono cacciati uno a uno. Mezzo milione di persone, compresi quasi tutti i cristiani (a destra), sono già fuggiti dalla città, 1,8milioni di abitanti era stata annunciata subito dopo la caduta di Mosul, lo scorso 5 giugno, e ricalca la politica di Al Baghdadi in tutte le città finite sotto il dominio dello Stato islamico (Is, già Isis), la formazione estremista sunnita nata da una costola di Al Qaeda che è riuscita a fondare il primo Stato islamista fuorilegge della storia. Dopo un mese l’autoproclamato califfo ha dato l’ultimatum, ma la scadenza era stata preparata nei dettagli. Le case ancora abitate da cristiani sono state segnate da una «n» rossa (da «nazaraniy », cristiano). Quelle abbandonate, in genere requisite della nuove autorità, da una «n» nera. I miliziani adesso bussano porta per porta. Chi resiste rischia l’esecuzione immediata e di vedere l’abitazione bruciata, mentre l’arcivescovado, coi suoi preziosi manoscritti, è già finito in cenere nei giorni scorsi. I cristiani di Mosul erano ancora oltre 50 mila, su una popolazione di 1,8 milioni, prima della caduta della città. Ridotti già a un terzo di quelli che vivevano lì ai tempi di Saddam Hussein, dittatore che aveva un occhio di riguardo per la minoranza fedele alla croce. Il 90% è fuggito nei primi giorni di giugno. Gran parte degli altri seguiranno. La jizya richiesta, secondo alcuni cristiani rimasti in città e raggiunti al telefono, parte da una base di 250 dollari annui a testa, ma può arrivare facilmente a 1000 se il capofamiglia è un medico o un ingegnere. Cifre pesantissime in una città devastata dalla guerra e impoverita. Solo pochi potranno pagarla. Ed è prevedibile che la «pulizia etnica» proseguirà. Una tragedia che anche Papa Francesco segue «con preoccupazione». La durezza della legge medievale rivela anche un duplice aspetto del Califfato che sta sorgendo su metà Siria e metà Iraq, un’area con 15 milioni di abitanti, in gran parte desertica ma solcata da due importanti fiumi, il Tigri e l’Eufrate. L’applicazione letterale dei precetti coranici è accompagnata a una martellante propaganda sui social media, anche in urdu e inglese per rivolgersi a musulmani che non parlano arabo. Sia l’account dell’Islamic State Media che ha numerosi followers sottolinea per esempio che in cambio della jizya il califfo offre «protezione » ai cristiani rimasti, o che anche i musulmani debbono pagare la loro tassa, zakat, l’elemosina obbligatoria in favore dei più poveri: «Se un musulmano rifiuta di pagare la zakat, ha solo l’opzione di morire, mentre se un kaffir, infedele, non paga la jizya, può sempre scegliere di andare via». E tweet corredati di foto mostrano soldi e farina distribuiti ai poveri in base alla zakat. Pugno di ferro, esecuzioni sommarie, pulizia etnica ma anche misure populiste (il prezzo della benzina è stato tagliato del 70%) servono anche a vincere la battaglia ideologica di Al Baghdadi che deve farsi accettare ed espandere il califfato. Le sue colonne motorizzate sono all’offensiva in Siria, dove hanno conquistato le campagne attorno ad Aleppo e il giacimento di gas di Al Shaer, a est di Palmira. Almeno 270 soldati e tecnici, secondo l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo, sono stati uccisi. In Iraq, lo Stato islamico ha respinto l’offensiva governativa a Tikrit, gestita in modo sciagurato dal governo di Nouri al Maliki. Migliaia di volontari sciiti inesperti sono stati mandati al massacro. Baghdad resta sempre nel mirino «Questo è nuovo genocidio, la nostra denuncia deve essere forte». Il drammatico appello è di Monsignor Amel Nona, arcivescovo di Mosul, la città dalla quale stanno fuggendo migliaia di cristiani dopo la nuova persecuzione da parte dei jihadisti dello Stato islamico. A poche ore dall’inizio della nuova ondata repressiva Nona si è incontrato ad Ankawa, qualche decina di chilometri al di là del confine del Kurdistan iracheno, con gli altri leader religiosi cristiani del centro e del nord dell’Iraq, Bashar Matiwardah, arcivescovo di Erbil, e Nichodemus Daoud Matti Sharaf, della chiesa ortodossa siriaca di Mosul, Kirkuk e Kurdistan. L’obiettivo è di unire le forze per mostrare al mondo intero quanto sta accadendo in quelle zone, «l’ennesimo episodio di quella persecuzione dei cristiani che prosegue dal 1913». «Le cose – spiega – sono precipitate venerdì, abbiamo iniziato a ricevere una enorme quantità di telefonate da Mosul e dintorni di persone che chiedevano aiuto e consigli, la polizia islamica e l’Isis avevano fatto scattare una caccia al cristiano, una volta intercettato gli concedevano due opzioni: fuggire o morire». L’alto prelato racconta inoltre che gli jihadisti hanno fatto irruzione nelle case portando via tutto, passaporti, documenti, denaro, gioielli e cellulari. «Centinaia di famiglie sono state spogliate di tutti i loro beni prima di essere cacciate dalla città, altri sono stati picchiati ai check-point degli islamisti mentre stavano fuggendo». E poi quelle scritte sulle porte della case dei cristiani: «Nazraniy», un modo per identificarli in maniera dispregiativa: «Ecco perché nuovo genocidio ». Il primo passo è denunciare al mondo quanto sta accadendo quindi procedere subito all’aiuto degli sfollati, la prima ondata dei quali dovrebbe essere di 2500 persone. «Abbiamo già accolto circa 50 famiglie in una delle nostre chiese di Al Qosh», poco sopra Tall Kayf, la cosiddetta terra di confine, quella della linea del fuoco dove la distanza tra l’ultimo check-point Peshmerga e il primo dello Stato islamico è di solo un chilometro. È da lì che fuggono i cristiani grazie ai corridoio di sicurezza creati dai «Guerrieri che guardano lamorte» e dall’Unicef. Ed è proprio il responsabile Unicef in Iraq, Marzio Babille, che ha voluto subito incontrare Nona, «per coordinare le operazioni di primo soccorso e mettere al sicuro i perseguitati».Babille spiega che già entro oggi fino a 900 sfollati potrebbero giungere ad Ankawa, enclave cristiana a nord di Erbil. «Tragedia nella tragedia», prosegue l’arcivescovo diMosul. «Il 4 giugno sono andato a celebrare messa in una parrocchia fuori da Mosul, il giorno dopo ho tentato di rientrare in città, ma si è scatenato quello che abbiamo visto». Eche non si è ancora concluso. Da allora Nona non è più tornato a Mosul, e aiuta i suoi concittadini da fuori accogliendoli nella fuga: «Allora dissi che il peggio doveva ancora venire, e infatti».