(da Il Foglio) – Il padre superiore dei missionari monfortani, Olivier Maire, è stato ucciso da un cittadino ruandese in situazione irregolare, Emmanuel Abayisenga, che aveva accolto nella sua congregazione. Abayisenga era già noto per aver incendiato la cattedrale di Nantes nel luglio del 2020. Il filosofo francese, membro dell’Institut de France e professore emerito all’università Panthéon-Sorbonne, analizza i fatti dal punto di vista della fede cristiana in un’intervista al Figaro.
Le Figaro – Qual è il suo pensiero sull’assassinio di padre Olivier Maire?
Rémi Brague – Provo gli stessi sentimenti che provano tutti, credo: sorpresa, dolore, pietà, e anche rabbia. L’autore del crimine che, si dice, ha spontaneamente confessato l’assassinio, era noto per aver tentato di incendiare la cattedrale di Nantes dove lavorava come sacrestano da volontario. Cos’ha spinto quest’uomo, che manifestamente aveva qualche problema, a compiere quest’atto? Era un piromane? Era distrutto da ciò di cui era stato testimone da adolescente in Ruanda? Era deluso dal rifiuto della domanda d’asilo? O era devastato dal periodo trascorso in detenzione? Lascio agli psichiatri il compito di pronunciarsi su questo aspetto. E lascio ai giuristi una responsabilità di cui non riuscirei a farmi carico: spiegare ai cittadini per quale fallimento delle nostre istituzioni o per quale lacuna della nostra legislazione questo personaggio, in situazione irregolare fin dall’inizio e oggetto di una minaccia di espulsione, è potuto restare sul territorio nazionale e, dopo il suo tentativo di incendio, non è stato messo e tenuto in un istituto dove avrebbe potuto essere curato in maniera efficace o, quantomeno, essere strettamente sorvegliato.
Alcuni, pur ammirando la compassione del padre superiore dei missionari monfortani, temono che sia stato accecato dalla sua bontà nonostante gli indizi che avrebbero potuto dissuaderlo dall’ospitare l’interessato. Cosa ne pensa?
La bontà non acceca mai. Al contrario, permette di vedere (…). Amare, in realtà, allarga e rende più profondo lo sguardo (…). Essere buono, significa volere il bene, per sé e per gli altri, e talvolta far passare il bene degli altri prima del proprio bene. Significa dunque anche dotarsi degli strumenti per vedere una capacità di fare del bene anche in quelli che, a prima vista, sembrano esserne incapaci. Si cerca di dare una possibilità a chi forse non lo merita. Ciò implica dei rischi, che possono essere grossi. Tutto porta a credere che padre Maire lo sapesse. Era membro di una congregazione missionaria, ossia abituata a vivere in regioni forse inospitali, se non addirittura ostili. Ma allo stesso tempo, era animato dalla convinzione che ogni persona fosse degna del messaggio di verità di cui si crede portatore.
Accade ad alcuni uomini di Chiesa di esagerare con il dovere di carità verso le persone potenzialmente pericolose o che potrebbero far loro del male?
La carità non è mai troppa (…). Ma deve includere il dovere di prudenza. Bisogna in effetti chiedersi non tanto se una persona può volermi fare del male, rischio che ho il diritto di correre, ma se può essere pericolosa per gli altri. Allo stesso modo, “porgere l’altra guancia” è magnifico fino a quando si tratta della mia guancia. Ma raccomandare al mio prossimo di farlo, mentre io sono al sicuro, è assolutamente ignobile.
Se si adotta il punto di vista della fede cattolica, padre Olivier Maire è un martire?
Attenzione: il martire ha une definizione ben precisa. Oggi viene utilizzato in maniera spropositata per chiunque paghi a caro prezzo una qualsiasi azione in favore di una causa, Resistenza e cuccioli di foca inclusi. Un tale abuso di linguaggio alimenta la corsa all’autovittimizzazione – e, simmetricamente, alla colpevolizzazione degli altri – che imperversa nella nostra società (…). Fra le religioni, l’islam considera “martiri” promessi al paradiso quelli che sono morti imbracciando le armi per estendere o difendere il territorio sottomesso alla legge di Allah. Il cristianesimo chiama in questo modo quelli che si sono lasciati uccidere perché avevano, per libera scelta, rifiutato di rinnegare Cristo, e dunque, secondo l’espressione tecnica, sono morti “in odium fidei”. Così è stato per i cristiani dati in pasto ai leoni nella Roma antica, per i martiri di Otranto (1480) o quelli dell’Uganda (1885 e 1887). Le carmelitane di Compiègne sono state ghigliottinate a causa di ciò che i rivoluzionari chiamavano il loro “fanatismo”. In compenso, i “profeti armati” (espressione di Machiavelli, e in seguito di Robespierre) come i crociati, i combattenti della Reconquista spagnola o ancora i Cristeros messicani, non sono mai stati dichiarati ufficialmente martiri o santi. E padre Maximilien Kolbe, ad Auschwitz, si è offerto volontario per morire di fame al posto di un padre di famiglia. Gesto ammirevole, per il quale è stato canonizzato. Ma è stato dichiarato martire solo sfiorando l’abuso di linguaggio. Spero dunque di incontrare padre Maire in paradiso – sempre se vi andrò anche io, certo – ma non lo cercherò nella compagnia dei martiri.