Varese – l rapporto tra scienza e fede – o, se si preferisce, tra scienza e religione – è uno dei grandi temi del pensiero contemporaneo. Al dibattito non contribuiscono soltanto i filosofi, come molti ritengono, ma anche gli scienziati. Sono note le molte opere che Albert Einstein ha scritto al riguardo. Numerosi, tuttavia, pure gli scienziati dei nostri giorni che riflettono sull’argomento proponendo soluzioni di vario tipo ma, in ogni caso, interessanti. Paolo Musso, docente di Filosofia della scienza all’Università dell’Insubria, offre una sintesi del dibattito in corso in un bel libro pubblicato da Mimesis Edizioni: “La scienza e l’idea di ragione. Scienza, filosofia e religione da Galileo ai buchi neri e oltre”. L’autore inquadra il problema nel contesto più vasto della nostra conoscenza della realtà naturale, sottolineando sin dall’inizio che questo non è il solo tipo di conoscenza di cui disponiamo. La controversia su tale affermazione è tuttora apertissima. Si può innanzitutto notare che non solo vi sono diversi generi di conoscenze scientifiche, ma anche conoscenze che fuoriescono dall’ambito della scienza. Chi sostiene una posizione simile è spesso accusato di non distinguere tra il processo propriamente cognitivo e la mera espressione di sentimenti soggettivi. E, per capire perché si verifichi la contrapposizione di cui sopra, è necessario qualche breve cenno storico. Era opinione dei positivisti del secolo scorso che la scienza moderna avesse occupato l’intero campo della conoscenza, ivi inclusi quegli spazi che, tradizionalmente, venivano riservati alla filosofia. Lo spirito scientifico andava pertanto trasferito senza esitazioni nel campo filosofico e, a questo proposito, il viennese Moritz Schlick affermò che un filosofo che conoscesse soltanto la filosofia era come “un coltello senza lama e senza manico”. Con ciò intendeva dire che il filosofo doveva essere esperto di almeno una disciplina scientifica se voleva pronunciare dei discorsi dotati di senso. Solo nella scienza si dà vera conoscenza, e le asserzioni della filosofia e della religione (ma anche dell’etica) altro non sono che enunciati privi di significato. I positivisti, dunque, attribuiscono valore soltanto agli enunciati empirici e a quelli analitici della logica e della matematica. La conoscenza è soltanto quella empirica, basata sui dati immediati, e la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dal metodo dell’analisi logica. Una funzione determinante viene svolta, all’interno di questa visione, dalla moderna logica formale (o matematica) poiché con il suo ausilio è possibile ottenere il massimo rigore nelle definizioni e negli asserti; utilizzandola, inoltre, si riesce a formalizzare i processi inferenziali intuitivi che sono propri del linguaggio comune, traducendo quest’ultimo in una forma controllata automaticamente mediante il meccanismo dei simboli. Musso nota che queste tesi si basano in fondo su un’assunzione piuttosto forte, secondo la quale solo la scienza possiede i caratteri dell’oggettività, mentre tutte le altre manifestazioni della cultura umana sarebbero soggettive. Oppure, per dirla in maniera ancora più radicale, soltanto la scienza è razionale, mentre le altre forme che può assumere la nostra cultura sarebbero irrazionali. Ne consegue, secondo l’autore, il manifestarsi della “malattia del secolo”, vale a dire l’incapacità di comprendere significato e ruolo del sentimento, “e questo, paradossalmente, nel momento stesso in cui lo si esalta come forse non è mai accaduto in nessun’altra epoca della storia umana”. La ragione viene concepita quale fredda capacità di calcolo, chiusa in se stessa, mentre il sentimento è ridotto alla pura reattività dell’istante. Non può essere così se si rammenta che il sentimento potenzia la ragione invece di sminuirla. E questo è importante quando si affronta il tema dei rapporti tra scienza e fede. Lo stesso Einstein affermò che “La scienza senza religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”. Il grande fisico non si riferiva ad alcuna particolare fede religiosa, ma intendeva mettere in rilievo che lo stupore sperimentato da ognuno di noi di fronte alla complessità e alla bellezza del mondo che ci circonda non può essere ridotto a una mera questione di calcolo. Si noti che per lo stesso Galileo l’autolimitazione allo studio delle “affezioni” valeva solo per il caso delle “sostanze naturali”, il che significa per la scienza sperimentale. Nota giustamente l’autore che “questo non solo non esclude, ma al contrario garantisce che sono possibili anche altre forme di conoscenza, in quanto significa, appunto, che la scienza sperimentale non si occupa di tutta l’esperienza, ma solo di una parte di essa”. La ricerca religiosa è, in fondo, il tentativo di scoprire “il senso del tutto”, di rispondere alla domanda circa il significato di tutto ciò che esiste. Naturalmente, se si trova una risposta a tale quesito, essa non va imposta a chi ha opinioni diverse dalle nostre, bensì – per quanto possibile – condivisa. E la condivisione implica, ancora una volta, la ricerca del giusto equilibrio tra ragione e sentimento.