da Tempi.it (Leone Grotti) – Il Libro di Giobbe ha bucato la storia, è eterno e sarà sempre nuovo finché esisterà il mondo, finché i terremoti faranno tremare la terra, finché crolleranno i ponti e sotto le macerie moriranno figli innocenti. Il dolore di Giobbe, a cui sono stati portati via famiglia e ricchezze, è come un macigno che opprime il cuore e l’allestimento della bella mostra che al Meeting sviscera il dramma della sofferenza è quanto mai azzeccato: in una delle prime sale una pietra gigantesca incombe sulla testa dei visitatori, pronta a schiacciarla.
Nel mare magnum di citazioni di dotti, scrittori e filosofi disseminate lungo il percorso ne spicca una, senza la quale l’intera esposizione non avrebbe senso. È di C.S. Lewis, che perse la moglie quattro anni dopo le nozze e che nel Problema della sofferenza scrive: «Il cristianesimo crea più che risolvere il problema del dolore, poiché il dolore non sarebbe in sé un problema se, insieme con la nostra esperienza quotidiana di un mondo doloroso, non avessimo ricevuto una sufficiente garanzia del fatto che la realtà ultima è giusta e amorosa».
L’intuizione di Lewis è geniale perché senza questo presupposto sarebbe sufficiente trovare un colpevole per le diverse tragedie che investono la vita. Senza il dramma spalancato da una promessa di bene basterebbe qualcuno a cui dare la colpa. E in Italia siamo i campioni nazionali nell’esercizio della ricerca del capro espiatorio, visto che siamo riusciti a processare gli scienziati e i sismologi “colpevoli” di non aver previsto il devastante sisma dell’Aquila (e ad assolverli, infine).
Ma la ricerca del colpevole, al pari delle giustificazioni teologico/filosofiche della possibile coesistenza di Dio e del male, non possono essere sufficienti e per questo diventano facile bersaglio dei cinici e razionalisti, dei Voltaire di turno, che si scagliano in ogni epoca tanto contro i «consolatori di inutili dolori» quanto contro coloro che ritengono che le disgrazie siano il «prezzo che Dio fa pagare per i peccati»: «Siete davvero certi che la causa eterna che tutto può, che tutto sa, creando per se stessa non poteva gettarci in questi tristi climi senza accenderci sotto dei vulcani?».
Giobbe, come si legge nella Bibbia, è «uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male». E ama così tanto Dio che arriva a sfidarlo e a gridare contro di lui. Se anche ci fossero delle parole in grado di giustificare il male accaduto, questo universale abitante della terra di Uz vuole da Dio in persona la risposta. Prendendo a prestito le parole che magistralmente Fabrice Hadjadj mette in bocca al protagonista di Giobbe o la tortura degli amici: «Io chiedo l’impossibile».
Il Meeting per fortuna non è così pazzo da cercare di rappresentare la risposta di Dio e i curatori della mostra hanno scelto di affidarsi, per questo compito, a un grande del cinema, Terrence Malick, proiettando alcuni fotogrammi di The Tree of Life, in cui il regista mostra con immagini stupefacenti la nascita del mondo. Commenta G.K. Chesterton: «Complessivamente siamo di fronte ad un salmo o una rapsodia del senso della meraviglia. Il creatore di tutte le cose è Lui stesso stupefatto dalle cose che Egli stesso ha creato. […] Giobbe propone un punto interrogativo; Dio risponde con un punto esclamativo. Invece di dimostrare a Giobbe che ci troviamo in un mondo che siamo in grado di spiegare, Egli insiste che si tratta di un mondo molto più strano di quello che Giobbe abbia mai pensato».
Il racconto biblico si interrompe proprio sul più bello, quando Giobbe smette i panni dell’inquisitore e torna a indossare quelli dello scolaro: «Ascoltami e io parlerò, io t’interrogherò e tu mi istruirai!». Ma la mostra va avanti per illustrare che «la risposta definitiva di Dio agli interrogativi di Giobbe e dunque a quelli di tutta l’umanità, non sarà una nuova dottrina, ma una presenza umana».
Nelle ultime stanze della mostra colpiscono le gigantografie di Gesù ricoperto di sangue tratte dalla Passione di Mel Gibson, accompagnate da questo episodio raccontato nella Vita di don Giussani: «Apro il portellino del confessionale e una signora – molto dignitosa nel modo in cui parlava –, dopo un po’ di silenzio, mi disse: “Padre, io bestemmio”. Io, giovanissimo prete, ho detto qualche parola di incitamento al bene, generica. Lei disse: “Io non posso non bestemmiare”. Beh, qui non era più necessario essere vecchio prete; bastava essere giovane uomo per dire: “No, adesso esagera”. “Mi è morto il marito due anni fa. Avevo due figli. Uno è impazzito per la morte del padre e, impazzito, ha ucciso il fratello. Adesso è al manicomio giudiziario di Bologna. Così mi sono trovata improvvisamente sola”. Dopo un momento di impaccio, perché non sa proprio che cosa dirle, Giussani le rivolge un invito: “Senta, […] adesso si alzi, si sieda lì davanti, guardi quel crocefisso: se ha da dire qualcosa, glielo dica”. La donna non va più via, e lui non sa più che cosa fare fino a quando, a un certo punto, si sente dire: “Ha ragione”».
In un vecchio intervento Giussani aggiungeva: «La risposta di Dio al dramma umano è stata un avvenimento particolare nel tempo. Oggi continua così. Non ci serve una teoria per affrontare la sofferenza. Non ci basta ricondurre l’avvenimento cristiano a una spiegazione basata sulla croce. Il testimone dice di un oggi, di una storia particolare, dove vediamo il trionfo della resurrezione di Cristo su circostanze dolorose che dovrebbero portare alla disperazione. «Ma tu, come fai?» È la domanda che ci viene quando siamo davanti a queste testimonianze. Ci mettono nella soglia del dialogo col Mistero del Dio buono. Come ha fatto Dio con Giobbe. Nel mio dolore, nella mia confusione o perplessità, ecco una storia davanti a me, oggi, che mi fa alzare la testa».
E la testa si può davvero sollevare perché nell’ultima sala della mostra, l’enorme masso del dolore che pendeva sul capo dei visitatori come una spada di Damocle, sta ora più in alto, permettendo di respirare. È sorretto dalla croce e dalle colonne dei testimoni (Giussani, san Massimiliano Kolbe, santa Teresa di Calcutta e altri). Perché la risposta al grido di Giobbe non è un ragionamento. Ma qui non c’è più spazio per il racconto. Subentra la vita.