di Ugo Peano – Ricordo quella vecchietta di Voghera cui chiesi un giorno: “Ma perché prega in latino, in una lingua che non capisce?”, e lei rispose: “L’importante è che capisca Lui”, veramente in dialetto aveva detto Lû indicando col dito indice rugoso e pieno di bitorzoli il Cielo. Quella simpatica vecchietta dell’Oltrepò Pavese, con la sua splendida e semplice quanto esatta saggezza popolare può aiutarci a comprendere il significato del Motu Proprio di Benedetto XVI, che ci fa liberi di scegliere tra la Messa secondo il rito Romano antico, mai abrogato, e quella postconciliare che a me pias nenta, per dirla in dialetto anch’io.
Infatti la cosa più importante nel culto divino non è quella di capire ogni parola o concetto, ma di trovarsi in un atteggiamento di reverenza di fronte a Dio. Senza dubbio la lingua e il rito servono anche per una comunicazione intelligibile tra esseri umani, ma il contatto con Dio ha la priorità. Non sorprende dunque che il linguaggio e i gesti liturgici differiscano da quelli quotidiani.
Il problema, quindi, è la lingua, ma soprattutto il rito. Il latino è ancora oggi lingua ufficiale della Chiesa, basti ricordare come nell’aprile 2005, milioni di persone seguirono in televisione le esequie, celebrate in latino, di Papa Giovanni Paolo II e, due settimane dopo, la Messa d’insediamento di Papa Benedetto XVI, anch’essa celebrata in latino. Ogni mattina la Radio Vaticana trasmette la Messa in latino, e il latino è la lingua con la quale si pubblicano i documenti ufficiali della Santa Sede.
L’uso del latino, poi, favorisce l’universalità dimostrata dal fatto che la predicazione cattolica della Chiesa è avvenuta in molte lingue, ma tra tutte quella latina si è presto imposta grazie alla sua sacralità non disgiunta dalla capacità di racchiudere in forma concisa ed efficace concetti di grande densità teologica, giuridica e culturale. La lingua latina, ha osservato Romano Amerio, è connaturale alla religione cattolica, non in senso metafisico – come se il cattolicesimo non potesse esistere senza il latino – ma storico, in virtù d’un rapporto intimo e particolare tra la lingua latina e la religione cattolica.
Il fatto poi che il latino non sia più una lingua correntemente parlata, non significa che sia una lingua morta. Una lingua non più parlata non è necessariamente morta e addirittura può risorgere, come è accaduto in maniera sorprendente, nel ventesimo secolo, con l’ebraico “risuscitato” dal filologo Ben Jehudah e dal fondatore del movimento sionista Teodor Herzl, che ne associarono la rinascita a quella dell’identità nazionale di Israele. Lingua morta non è neanche l’arabo classico che si usa comunemente ancor oggi nella letteratura e in tutte le circostanze formali, ma che non è lingua materna di nessuno: gli abitanti dei Paesi arabi infatti, nella vita quotidiana, parlano e trasmettono ai propri figli, soltanto il dialetto della regione in cui vivono.
Una lingua morta non è una lingua non più parlata, ma una lingua scomparsa dalla cultura e dalla memoria dell’umanità ed il latino è talmente vivo e vegeto che è parlato in tutto il mondo, ed è la lingua dei primi cristiani gentili, i nostri primordiali antenati religiosi. Una lingua grazie alla quale è stata trandata la fede cristiana in duemila anni, vero fiume sacro della nostra identità nei secoli. La lingua latina, per la stabilità lessicale e grammaticale che le è propria e che la rende immune dalle variazioni introdotte nell’uso quotidiano del popolo, riesce, meglio di ogni altra lingua, a formulare e a conservare, attraverso le generazioni, l’integrità e l’immutabilità della dottrina Cattolica.
La Messa tradizionale liberalizzata da Benedetto XVI si distingue dalla Messa moderna oltre che per la lingua, soprattutto per il rito. Fu Paolo VI infatti che nel 1969, con la Costituzione Missale romanum sostitui, senza abrogarlo, il Rito romano antico con un nuovo complesso di norme e di preghiere definito Novus Ordo Missae.
E anche qui, l’innovazione ha generato confusione e anche un certo cattivo gusto rituale e liturgico. Al punto che fu introdotta progressivamente una serie di novità e di varianti, molte delle quali non previste né dal Concilio Vaticano II, né dalla stessa Costituzione di Papa Montini.
Il quid novum non consisté solo nella sostituzione della lingua di culto latina con le lingue volgari ma nell’altare ridotto a “mensa”, per sottolineare l’aspetto di banchetto in luogo del sacrificio; nella celebratio versus populum, sostituita a quella versus Deum, con l’abbandono conseguente della celebrazione verso Oriente, ovvero verso Cristo simboleggiato dal sole nascente; nella mancanza di silenzio e di raccoglimento durante la cerimonia e nella teatralità della celebrazione spesso accompagnata da canti dissacranti e schitarrate da bettola di periferia, col sacerdote ridotto a “presidente dell’assemblea”. La profanazione del rito cattolico è evidente nell’ipertrofia della liturgia della parola rispetto alla liturgia eucaristica, nel “segno” della pace che sostituisce le genuflessioni del sacerdote e dei fedeli, nella comunione ricevuta dai fedeli in piedi e poi anche in mano, nell’accesso delle donne all’altare, nella concelebrazione come tendenza alla “collettivizzazione” del rito soprattutto nella modifica e nella sostituzione delle preghiere dell’Offertorio e del Canone. L’eliminazione delle parole Mysterium Fidei dalla forma eucaristica, può essere considerata, come ha osservato il cardinale Stickler, come il simbolo della secolarizzazione e con ciò dell’umanizzazione del nucleo centrale della Santa Messa.
Il filo conduttore di queste innovazioni può essere espresso nella tesi secondo cui, se vogliamo rendere la fede di Cristo accessibile all’uomo di oggi, dobbiamo vivere e presentare questa fede all’interno del pensiero e della mentalità odierna. E allora perché non dire la messa in dialetto? Questa provocazione è giustificata dal fatto che i risultati della riforma conciliare sono stati contrari alle speranze. La nuova liturgia ha allontanato molti dalla fede, mentre, come ha spiegato il cardinale Dario Castrillon Hoyos presentando il motu proprio di Benedetto XVI , “oggi assistiamo a un nuovo e rinnovato interesse verso la liturgia tradizionale, mai abolita, che, da molti, è considerata un tesoro”. Anche perché la liturgia è una preghiera non individuale, ma sociale, collettiva, la cui dimensione è sempre verticale: non lega gli uomini tra loro o alla figura del sacerdote, ma unisce l’assemblea dei fedeli a Dio. Si tende tutti verso la Luce. D’altronde non si capisce perché nelle messe nere si pronuncino rituali in lingue arcane incomprensibili per destare il maligno, ma per il Padreterno ci trasciniamo stancamente in una liturgia profanata dalla lingua volgare sempre diversa a seconda dello stato in cui si vive. Anche in questo caso il latino unisce al di là di ogni confine ed è veramente un linguaggio universale.