(Dario Cataldo di Korazym) – Il vaccino è un atto d’amore, ma le vocazioni sono un atto di fede. La pandemia ha cambiato le nostre abitudini, introdotto obblighi e divieti in nome di un bene superiore chiamato vita. Tutto perfetto, tutto normale, fino a quando l’ingerenza del potere temporale è piombato su quello spirituale.
Per carità, qui non si tratta di mettere in dubbio protocolli regolamentati – seppure cambiano al ritmo del cambio del vento. Si tratta di fare chiarezza. Si tratta di capire se la fede può ancora mettere becco sulle cose che le competono, oppure deve cedere il testimone.
No perché le vocazioni hanno ben poco a che fare con le stanze dei bottoni. Hanno poco o nulla a spartire con dinamiche squisitamente secolari. Hanno per nulla a che fare con dibattiti e talk show televisivi.
Che siano i sovraesposti “uomini di scienza” alla rincorsa di un primo piano e popolarità a padroneggiarli. D’altronde, l’ingordigia mediatica a cui abbiamo assistito in quasi due anni di pandemia, parla da sé.
Quello che è duro da digerire è l’inflazione che la religione ha subito per far posto al “bene superiore”.
Chiese tappezzate da cartelli di sicurezza, riti religiosi mozzati da uno svilente obiettivo puntato addosso. E adesso? Anche i seminari che vietano l’accesso a coloro i quali cercano Dio nella vocazione.
È quanto previsto dal Seminario arcivescovile di Milano, che di fatto limita l’accesso a chi si affaccia alla vita consacrata se sprovvisto del siero anti-Covid. Insomma, qualcosa che non si era mai visto prima. Qualcosa che interferisce sulla sfera spirituale, a cui però bisognerebbe guardare con più rispetto.
Quantomeno per il fatto che attraversiamo una profonda crisi vocazionale in ambito cristiano. Scandali, uniformazioni e basso profilo, in ossequio al mainstream, rischiano di svilire quanto di più puro e fuori dagli schemi esista.
No perché la vocazione, che altro non è che consacrare la propria vita a Dio, rischia di subire un cortocircuito alla base.
Non si tratta di limitare la libertà individuale laddove la stessa lede quella collettiva. Si tratta di arrogarsi il diritto/dovere di ordinare ciò che può o non può andare bene al sacro.
Se anche l’ultimo baluardo della cristianità è intaccato, per chi ha fede, per la comunità dei credenti, ha cosa è possibile aggrapparsi per non lasciarsi sopraffare?
Le Istituzioni ecclesiastiche dovrebbero a questo punto avere più voce in capitolo su scelte decisionali che le coinvolgono direttamente, unitamente a milioni di fedeli sparsi nel mondo.
C’è una sottile linea di demarcazione che in questi lunghi secoli di età cristiana non era mai stata prevaricata.
Lasciare che l’ingerenza del pensiero unico coinvolga e metta in discussione qualcosa che non lo è mai stato per dogma di fede, rende la vita del cristiano più appiattita verso il basso.
La speranza che possa innescarsi una nuova polarizzazione in cui si possa dare a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio, deve essere la bussola su cui restare saldi per tracciare la rotta.
Sì perché la crisi sanitaria prima o poi passerà. La fede e la vocazione, se autentiche restano. E dobbiamo farne conto quando ci guarderemo allo specchio per capire cosa è stato fatto per tutelarle.