da Cristianesimo Cattolico – Dopo la scoperta dell’uso strumentale della nuova definizione di “morte cerebrale” per espiantare organi e le interviste ad un medico e un filosofo, che hanno spiegato la storia di questo nuovo criterio varato ad Harvard nel ’68 insieme alle conseguenze nefaste prodotte, il noto filosofo austriaco Josef Seifert, amico di Benedetto XVI ed ex membro della Pontificia Accademia per la Vita (PAV), spiega l’errore scientifico che ci sta dietro e perché i cattolici non sono tenuti a credere in questa “falsa morte”.
Professor Seifert, lei fu uno dei primi a sollevare obiezioni circa il criterio della morte cerebrale all’interno della Chiesa. Perché?
Sin dal primo momento in cui ho sentito parlare di questa nuova definizione di morte durante l’Essener Conversations on State and Church, ero convinto che la nuova definizione o i nuovi criteri di morte in termini di disfunzioni irreversibili del cervello fossero profondamente sbagliati. Le mie ragioni erano e sono molto semplici e comprensibili da chiunque:
1. Un anno dopo il primo trapianto di cuore riuscito, l’interesse pragmatico in questa ridefinizione della morte al fine di ottenere organi era ovvia e ammessa palesemente (si veda “Report of the Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School to Examine the Definition of Brain Death” – Journal of the American Medical Association/JAMA, 209, pp.337-43). L’intenzione di espiantare organi motivò chiaramente la commissione di Harvard nel ridefinire la morte. Il rapporto di Harvard non dava alcuna singola ragione, a parte due di tipo pragmatico, sul perché i pazienti “morti cerebralmente” fossero morti. Ci sono molti segni e prove del fatto che le definizioni di “morte cerebrale” fossero particolarmente fondate sull’utilità piuttosto che sulla verità. Proprio il fatto che la commissione di Harvard dà solo due ragioni pragmatiche per questa ridefinizione della morte la rende molto sospetta. La convenienza di dichiarare qualcuno morto per una motivazione utilitarista o per “il bisogno di avere i suoi organi” non rende quella persona morta. Ma molte altre ragioni mi facevano dubitare.
2. Come può qualcuno dichiarare una persona “morta” se il suo cuore batte, la sua respirazione (sebbene non sia spontanea ma sostenuta dalla ventilazione) è pienamente funzionale nei polmoni e in tutte le cellule del corpo e mostra molti altri segni di vita? Come si può dichiarare morta una mamma “cerebralmente morta”, che porta in grembo un bambino e che lo partorisce nove mesi dopo averlo concepito? Disconnettere forzatamente la ventilazione ucciderebbe sia lei sia il bambino. Come fa un corpo umano ad essere morto se ha dei riflessi, se può essere nutrito e assorbire fluidi, mostrando il “miracolo” del metabolismo con la trasformazione del cibo in sostanze corporee, potendo resistere alle malattie grazie al suo sistema immunitario, mantenendo una temperatura corporea normale, mostrando una crescita proporzionale (Il giovane TK “cerebralmente morto” in maniera cronica rimase “morto” per 20 anni secondo la definizione di morte cerebrale). Non va contro ogni evidenza di vita sostenere che una persona il cui corpo mostra un numero infinito di prove e segni di vita, supera la pubertà, è gravido e partorisce un bambino vivo, sia morto? Quando mai un cadavere ha dato vita ad un bambino?
3. Un argomento bio-filosofico a favore della “morte cerebrale” sostiene che senza le funzioni cerebrali attive l’uomo non sia altro che un insieme di cellule e organi dissociati fra loro. Solo il cervello darebbe unità al corpo. Ma come si può attribuite al cervello, un organo che si forma relativamente tardi, preceduto per molte settimane dall’organismo vivente di cui sarà il cervello, il ruolo di integratore centrale della sola parte del corpo che porta la vita? Un alto livello di vita umana integrata precede chiaramente la formazione del cervello. Il cervello è il prodotto di questo essere umano integrato e in via di sviluppo, non la sua causa né il suo unico portatore.
4. Il termine “morte cerebrale” è estremamente ambiguo e significa cose totalmente differenti: 1) la morte di un organo, 2) la morte di una persona viva il cui cervello non è funzionale. Inoltre, anche lo stato fisico della morte dell’organo è del tutto ambiguo: 1a) morte del tronco cerebrale, 1b) morte cerebrale superiore (morte cerebrale), 1c) morte cerebrale completa, ecc. Nessuno di questi concetti estremamente differenti su ciò che costituisce la morte ha buoni argomenti in suo favore. Soprattutto, dato che regna la confusione più completa circa quale di queste “morti cerebrali” sia da ritenere la morte dell’uomo e dato che la confusione totale e l’incertezza circa le ragioni delle rispettive rivendicazioni di morte rimangono, qualsiasi definizione poco chiara, confusa nel contenuto delle ragioni su ciò che è morte umana, è completamente immorale e vìola i diritti umani per consentire, su basi del tutto vacillanti, l’estrazione di organi vitali unici (non doppi) e quindi in realtà, o almeno potenzialmente, di uccidere un essere umano.
5. La persona umana (l’anima) ha un essere sostanziale che non può essere ridotto alla capacità umana di usare, in un modo empiricamente dimostrabile, il suo intelletto o la sua coscienza. Perciò molti argomenti di coloro che difendono la “morte cerebrale”, di coloro che desumono dalla presunta cessazione della coscienza, del pensiero e della percezione che una persona è morta, si basano su un’antropologia materialista o attualista completamente sbagliata che identifica l’”essere persona” con l’”agire come una persona”.
6) La reazione violenta ai cosiddetti pazienti morti quando i loro organi vengono espiantati, analoga alla reazione violenta degli embrioni quando vengono abortiti, come il film “the silent cry” documenta, prova che è quantomeno probabile che le persone “cerebralmente morte” siano senzienti e che queste reazioni non siano “segni di Lazzaro” (tra l’altro: Lazzaro era vivo) in un cadavere.
San Giovanni Paolo II, nel 2000, in un discorso pronunciato durante il congresso internazionale della Società di Trapianti, parlò della “morte cerebrale” come di un criterio oramai condiviso “dalla comunità scientifica internazionale” a cui la Chiesa non obiettava. Perché secondo lei? I cattolici sono obbligati ad aderire a tale affermazione?
Il perché del discorso del Papa non lo conosco. Può essere che abbia dato credito infondato ai membri e ai leader della Pontificia accademia delle Scienze (PAS) che per due volte, nel 1984 all’unanimità e nel 1989 in larga maggioranza, ha optato per l’accettazione della definizione di “morte cerebrale” (il professor Alan Shewmon, un neurologo pediatrico di grande fama e forse il principale esperto medico sulla questione della “morte cerebrale”, iniziò a dubitare a quell’incontro circa la correttezza della sua difesa della “morte cerebrale” del 1985 e del 1987, e io, invitato dalla PAV come esperto, mi ero fortemente opposto – Josef Seifert, “Is ‘Brain Death’ actually Death? A Critique of Redefining Man’s Death in Terms of ‘Brain Death’”; in: R.J. White, H. Angstwurm, ed. I. Carasco de Paola). Ma la posizione favorevole della Pas nell’identificare la morte con la “morte cerebrale” non ha assolutamente alcun valore. La Pas (che aveva difeso molti errori filosofici, morali, teologici e altri tipi di errori) non ha autorità magisteriale. Anche il vicepresidente e, successivamente, presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Elio Sgreccia, uomo di ampia conoscenza e profonda saggezza, non ha accettato le molte voci (del dottor Alan Shewmon, del professor Cicero Coimbra, la mia e di altri) che avevano criticato questa ridefinizione della morte. Quindi, potrebbe anche aver influenzato il discorso del Papa. Ma il discorso di Giovanni Paolo II ai medici trapiantisti non è un documento propriamente ecclesiale che ci obbliga ad acconsentire, specialmente con il giudizio medico empirico che contiene. Non siamo quindi obbligati ad accettare questo discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II nella sua interezza. Dobbiamo solo accettare la dichiarazione magisteriale per cui possiamo espiantare organi vitali unici (non doppi) solamente da persone certamente defunte (ex cadavere, come formulato da papa Benedetto XVI), ma non dobbiamo nemmeno acconsentire alla dichiarazione chiaramente errata di Giovanni Paolo II in questo discorso sul fatto che ci sia un consenso universale nella comunità medica intorno alla “morte cerebrale” come morte effettiva, né dobbiamo convenire che sia legittimo estrarre organi vitali da pazienti dichiarati “cerebralmente morti”. La prima di queste affermazioni contraddice il fatto che esiste un numero considerevole (e crescente) di professionisti medici e scienziati di primo livello che non sono d’accordo con le definizioni di “morte cerebrale”. La seconda affermazione è tratta dal Papa come conseguenza dalla prima. L’affermazione dottrinale consiste solo nella necessità di essere certi che una persona sia morta prima che siano espiantati organi vitali unici (non doppi). Il resto sono solo affermazioni mediche o filosofiche sul fatto che persone il cui cervello non funziona sono morte, ma non abbiamo assolutamente alcun obbligo di concordare con tali affermazioni, in particolare quando ci accorgiamo che sono false. Inoltre, papa Giovanni Paolo II aveva poi nutrito seri dubbi riguardo alla verità del suo discorso perciò chiese che nel 2005 si tenesse un altro incontro di esperti (me incluso) alla Pas, dove in larga maggioranza e con ragioni eccellenti venne respinta l’equazione “la morte cerebrale = morte”. Il testo di questo incontro era pronto per essere mandato in stampa, le bozze del libro corrette, ma poi il volume fu soppresso dalla Pas che convocò un altro incontro in cui la maggioranza era a favore della “morte cerebrale”. Una gran parte di questi interventi silenziati fu pubblicata per il Consiglio Nazionale di Ricerche in italiano e in inglese. (Roberto de Mattei (Ed.), “Finis Vitae: Is Brain Death still Life?” Consiglio Nazionale delle Ricerche, Soveria Mannelli: Rubettino, 2006, 2007; Roberto de Mattei (Ed.), “Finis Vitae. La morte cerebrale e ancora vita?”, Consiglio Nazionale delle Ricerche. Filosofia e scienza. Saggi 193, Roma: Rubettino, 2007). Tuttavia, né le macchinazioni intelligenti né le opinioni delle maggioranze sono importanti quando c’è in gioco la verità. Anche il dottor Shewmon alla domanda se siamo obbligati ad aderire al discorso del Papa ha risposto in modo eccellente in “You die only once. Why Brain Death is not the Death of the Human Being. A Reply to Nicholas Tonti-Filippini” (Communio 39, fall of 2012, pp. 422-494). Allo stesso modo, la dottoressa e teologa Doyen Nguyen lo ha spiegato in un eccellente articolo (“Pope John Paul II and the Neurological Standard for the Determination of Death: A Critical Analysis of his Address to the Transplantation Society”. The Linacre Quarterly 84(2): 155-186, 2017).
Si dice che il criterio della vita sia sempre stato quello delle funzioni integrate del corpo, senza le quali possiamo solo parlare del funzionamento di certi organi o cellule. In sintesi, il corpo di una persona con un cuore pulsante il cui cervello, cervelletto e tronco cerebrale fossero totalmente danneggiati, sarebbe una massa di materiale biologico vivente ma non una persona. Come giustifica la sua posizione di fronte ad una teoria (quella dell’omeostasi e dell’unità integrativa delle funzioni) sposata da tutta la fisiologia e la scienza fin da Aristotele per giudicare la presenza della vita e dell’anima in un corpo?
Ovviamente, esiste una distinzione tra la vita dell’organismo in quanto tale (o come un tutto) e la vita della singola cellula di un capello o della pelle o del fegato, conservati in un frigorifero dopo un incidente mortale. Ma la questione precisamente è se il cervello sia l’integratore centrale e se tutte le attività della vita integrale dipendono da un cervello funzionante. Questo è ovviamente falso per i seguenti motivi:
1. Molte funzioni vitali integrate (crescita proporzionale, sistema immunitario, respirazione nei polmoni e delle cellule se la ventilazione viene continuata, flusso sanguigno, mantenimento della temperatura corporea e molte altre) vengono osservate nel paziente “cerebralmente morto”. L’affermazione per cui il cervello è l’integratore centrale è stata completamente e scientificamente confutata da Shewmon e la sua dimostrazione è stata accettata dal presidente americano del Council on Bioethics e dalla Commissione Etica tedesca.
2. La totalità integrata dell’organismo umano precede la formazione del cervello e perciò la vita unificata di un organismo non può essere fatta dipendere, dopo che il cervello si è sviluppato, dalla funzione cerebrale.
Quali sono le prove del fatto che il cervello non è il centro delle funzioni vitali integrate, per cui in caso di “morte cerebrale” la persona umana non può dirsi morta?
Come detto prima, la “morte cerebrale” non implica certamente la perdita completa della vita umana integrata. Nel caso della “morte cerebrale” cronica (un paziente vissuto per 20 anni in “morte cerebrale”) la vita umana integrata può continuare per decenni. Il fatto che un paziente “morto cerebralmente”, se la ventilazione viene rimossa quando il suo sistema muscolare e inalatorio non può inalare aria da solo, morirà presto, non implica che “sia già morto”. Al contrario, può morire presto proprio perché è ancora vivo: i cadaveri non muoiono.
Perché l’anima può essere presente in una persona il cui cervello e tronco encefalico siano inattivi ma il cui cuore batte? E perché sostenere questo non è eterodosso come dicono alcuni?
L’anima spirituale umana non ha sede nel cervello o in una singola parte del corpo. Non c’è alcun dogma della Chiesa che insegna che l’anima lascia un corpo, di un corpo umano vivente, quando il cervello smette di funzionare. Perciò non è eterodosso sostenere che l’anima vive nel corpo fino alla morte naturale dell’uomo. Piuttosto è eterodosso il contrario, perché la Chiesa dichiara come dogma che l’uomo ha una sola anima (non tre differenti anime: anima vegetativa – di pianta -, anima senziente o anima sensitiva e un’anima razionale). Quindi, finché nell’uomo è presente una vita vegetativa integrata o una vita senziente (entrambe chiaramente evidenziate in pazienti “cerebralmente morti”), l’unica anima umana razionale che conferisce tutti i livelli di vita al corpo è presente.
Cosa pensava Benedetto XVI della donazione di organi? C’è chi dice che fosse d’accordo con il discorso di Giovanni Paolo II sebbene avesse poi cancellato di suo pugno dalle bozze del catechismo la definizione di “morte cerebrale” e sebbene nei suoi discorsi da Papa ammise l’espianto solo ex cadavere. Ha mai avuto modo di confrontarsi con lui?
Ho parlato con papa Benedetto di questo quando era ancora cardinale, mi disse che anche il professor Spaemann, come me, aveva cercato di convincerlo da tempo a respingere la definizione di “morte cerebrale” come una definizione invalida o come criterio di morte. Gli scrissi a riguardo anche quando era diventato papa. Non mi scrisse nulla di più rispetto a quanto disse nel suo famoso discorso da papa sul fatto che gli organi (vitali e non doppi) devono essere espiantati solo ex cadavere. Questa dichiarazione indica chiaramente che non era privo di critiche rispetto alla definizione di “morte cerebrale”.
Quali criteri usare dunque per accertare la fine delle funzioni integrate del corpo e dunque la morte della persona?
Solo il criterio tradizionale del collasso totale e irreversibile di tutte le funzioni vitali compreso il battito cardiaco e la respirazione. A coloro che difendono l’espianto di organi vitali subito dopo che il cuore ha smesso di battere obietto: finché è possibile la rianimazione, anche se in alcuni casi non è richiesta dal punto di vista medico e morale, non possiamo dichiarare una persona morta. Fino ad allora ci sarà ancora vita e la sua anima sarà in lui. L’argomento secondo cui il paziente in questa situazione non avrebbe più bisogno del suo cuore, non è convincente. Per espiantare il cuore, uno potrebbe ucciderlo e porre fine alla vita che è ancora in lui e che potrebbe essere “rianimata”.
Pensa sia lecito, dopo diagnosi accurate di cervello, cervelletto e tronco encefalico completamente danneggiati, donare comunque e volontariamente organi che porrebbero fine alla vita (come il cuore) di una persona in coma irreversibile come gesto di altruismo?
No, perché significherebbe commettere un suicidio o omicidio — sebbene per una causa nobile. Anche se amiamo un altro essere umano più che noi stessi e fossimo pronti a morire per lui, come san Massimiliano Kolbe, non siamo i padroni della vita e della morte dell’uomo, né di un altra persona né di noi stessi. Possiamo prendere il posto di una vittima innocente durante un omicidio solo se un’altra persona lo sta commettendo, ma non possiamo chiedere noi ad una persona che ci uccida. Non rispettare questo sarebbe suicidarsi o, più precisamente, chiedere ad un’altra persona (che dovrebbe espiantare i nostri organi) di diventare un assassino. La buona causa e l’intenzione non giustificano questo atto.
Quando è possibile donare organi, se il criterio della “morte cerebrale” non è in alcun caso ammissibile?
Se la “morte cerebrale” non è morte reale, allora sia il traffico sia la donazione di organi vitali singoli (non doppi) espiantati da una persona “cerebralmente morta” è un errore perché significa ucciderla. Questo non esclude la volontà di donare un organo doppio quando siamo chiaramente in uno stato di completa e irreversibile disfunzione del cervello. Siccome donare questi organi non ci uccide, potremmo donarli anche durante la vita. In ogni caso non lo suggerirei in caso di diagnosi di “morte cerebrale” che possono essere errate: se in quel caso ci svegliassimo, per esempio, senza uno dei nostri reni o dei nostri occhi etc. potrebbe essere una cosa sgradevole e non voluta. Inoltre, se decidiamo di donare solo i nostri organi doppi e non vitali, è probabile che l’ospedale non legga abbastanza bene le nostre volontà, espiantando magari anche il cuore, il nostro organo vitale unico, e quindi uccidendoci del tutto.