(Francisco Borba Ribeiro Neto di Aleteia) – Molto tempo fa, in un dibattito accademico, sono stato provocato a provare che c’era una verità non relativa, che non dipendeva dalla posizione di ciascuno. Ho chiesto che le persone in sala che non volevano essere felici alzassero la mano. Nessuno lo ha fatto. Ho risposto al mio interlocutore che l’affermazione per cui tutti gli esseri umani vogliono essere felici era una verità assoluta. Una professoressa mi ha contestato, dicendo che dipendeva da ciò che ciascuno intendeva per “essere felici”.
Ho concordato con lei e ho riformulato la frase: “Tutti vogliono essere felici, anche se ciascuno cerca di essere felice a modo suo”. Ho aggiunto che, a partire da lì, si apriva la possibilità di un vero dialogo. Avevamo un punto di arrivo in comune, e potevamo dialogare per paragonare i nostri cammini e imparare insieme cosa sia la vera felicità e come raggiungerla.
La felicità che tutti desiderano
Come accade con la speranza, anche la felicità è un desiderio di tutti gli esseri umani e un dono che Dio ci dà, ma che spesso non capiamo né accogliamo, perché lo vediamo con gli occhi del mondo e non con quelli della fede.
Ma questa è la grande disputa di senso nella società contemporanea – anzi, in tutte, anche se la nostra è probabilmente quella in cui la questione è più evidente. In Storia della Morte in Occidente, Philippe Ariès ha scritto che nella società attuale esiste “la necessità della felicità, il dovere morale e l’obbligo sociale di contribuire alla felicità collettiva, evitando qualsiasi causa di tristezza o di disagio, mantenendo l’apparenza di essere sempre felici, anche se siamo in fondo alla depressione”.
Papa Francesco ha ben chiara questa caratteristica della nostra epoca. Non a caso, il documento considerato la presentazione della sua proposta per la Chiesa, l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (EG), inizia con queste parole: “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. […] Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia” (EG 1). Questa “gioia del Vangelo” non è altro che la vera felicità cristiana.
Spesso crediamo che la lotta del cristianesimo nel mondo sia un confronto tra valori, che la nostra coerenza morale sia il differenziale tra i buoni cristiani e gli altri. Ci illudiamo che le persone crederanno di più in Cristo perché noi siamo più coerenti. La coerenza è sempre molto importante, ma non è il vero elemento che differenzia tutto. Se il problema fosse la coerenza, al momento decisivo Gesù si sarebbe circondato di bravi farisei e non di pescatori infedeli, come Pietro, o di esattori delle tasse, come Matteo. Le persone seguono Cristo perché si sentono amate e/o perché percepiscono la felicità dei cristiani…
Quando un gruppo di giovani della sua diocesi stava per andare in Brasile come missionari, un vecchio vescovo italiano ha detto loro: “Posso solo augurarvi che quando arriverete alla mia età siate stati felici come me!” Una persona così felice, così sazia di ciò che dà sapore alla vita che non riesce ad augurare nient’altro oltre a ciò che già ha, che non riesce a immaginare che altre persone possano essere più felici, tanto è grande la sua felicità. Non era una frase di prepotenza, non si trattava del “dovere di essere felici” a cui alludeva Ariès, ma del semplice riconoscimento di una grazia ricevuta.