(Mons. Michele Pennisi di In Terris) – Le beatitudini sono la carta d’identità per chi vuole ancora dirsi cristiano, o sono parole che , pur avendo il fascino della bellezza e il profumo della poesia, appartengono alla grande utopia di Gesù Cristo che non ha, purtroppo, cambiato il mondo?
Esse possono essere messe in pratica da alcuni eletti o sono patrimonio dell’umanità, sono valide per la vita futura o anche per il presente? Un filosofo post-cristiano come Nietzsche definiva, le beatitudini il cuore della morale degli schiavi che capovolge la scala dei valori (felice = nobile = potente = bello = ricco = amato da Dio) e mette in evidenza le qualità che servono ad alleviare l’esistenza dei sofferenti e degli ultimi. Sul piano politico Bismarck diceva che con il discorso della montagna non si può governare.
Nei tempi moderni, c’è voluto un non cristiano come il Mahatma Gandhi a definire le beatitudini come “le parole più alte del pensiero umano” , mostrandone l’attualità nelle circostanze della vita moderna e criticando l’interpretazione dei cristiani benpensanti che enfatizzavano l’’impossibilità di metterle in pratica.
La felicità rimane la nostra aspirazione più profonda e la nostra delusione più amara, non potendola completamente raggiungere la desidera ardentemente.
Per la nostra generazione stressata dalla pandemia, disincantata e indifferente le beatitudini ci offrono una proposta di umanizzazione che da senso alla nostra vita quotidiana e ci offrono prospettive di speranza verso un avvenire aperto all’eternità. Come la terra, salvata dalla risurrezione di Cristo, è già principio del Regno di Dio, anche le promesse di Gesù nelle beatitudini trovano una prima realizzazione in questo mondo. Il loro messaggio si pone lungo il crinale del già e non ancora. Con le beatitudini Gesù ci fa comprendere che la felicità promessa da Dio comincia quaggiù ma avrà il suo compimento pieno nella celeste Gerusalemme.
Il modello di uomo e di umanità disegnato dalle beatitudini, corrisponde in primo luogo a Cristo stesso: egli è il vero povero in spirito, afflitto, mite, misericordioso, puro di cuore, operatore di pace, insultato, perseguitato. Le beatitudini sono la vita stessa di Cristo, Lui le ha vissute.
Per questo, il nostro aderire ad esse ci pone alla sua sequela. In ogni tempo, e quindi anche nel nostro, le beatitudini tracciano da un lato il vero e proprio autoritratto di Cristo, dall’altro comunicano a noi cristiani, come a ogni persona, una serie di condizioni in cui sperimentare la felicità, come “perfetta letizia”.
Le beatitudini continuano ad esercitare un fascino perché non stabiliscono nuovi comandamenti, ma propongono la bella notizia che Dio promette la felicità piena a chi manifesta amore per il prossimo. Esse riaccendono la nostalgia di un mondo nuovo fatto di bontà, di misericordia, di mitezza senza violenza e senza menzogna, di povertà piena di fiducia in Dio.
Le beatitudini contengono un messaggio paradossale e rivoluzionario: le persone sconfitte secondo il mondo vengono considerate da Gesù come i veri vincitori, chiamati ad edificare il Regno di Dio, come regno di santità e di grazia, di libertà e di verità, di giustizia, di amore e di pace. Nella Esortazione Apostolica Gaudete et exultate Papa Francesco afferma che le beatitudini sono un programma di santità . Esse sono :“Poche parole, semplici, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla”.
La realizzazione delle beatitudini nella vita quotidiana è un dono dello Spirito Santo che ci pervade con la sua potenza e ci libera dalla fragilità, dall’egoismo, dalla pigrizia e dall’orgoglio. La santità come via alla vera felicità per il Papa è essere poveri nel cuore, reagire con umile mitezza, saper piangere con gli altri, cercare la giustizia con fame e sete, guardare ed agire con misericordia, mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, seminare pace intorno a noi, accettare ogni giorno la via del Vangelo non ostante ci procuri problemi. Che “felice” e “beato” siano sinonimi di “santo” ci è dimostrato dalla vita di tanti discepoli di Cristo che hanno preso il Vangelo alla lettera: da Paolo a Francesco d’Assisi, da Filippo Neri a Tommaso Moro, da madre Teresa di Calcutta a Giorgio la Pira.
Noi cristiani del ventunesimo secolo ci dobbiamo sentire ancora sfidati dal provocatorio rimprovero di Friedrich Nietzsche :”[I “cristiani”] dovrebbero cantarmi canti migliori perché io impari a credere al loro “redentore”: più gioiosi dovrebbero sembrarmi i suoi “discepoli”!”. In questi giorni siamo chiamati a lasciar risuonare per ciascuno di noi, chierico o laico, la nuda “domanda”: è possibile vivere le beatitudini evangeliche qui e ora, nella nostra vita personale come in quella sociale?