Uno studio realizzato da ricercatori dell’università di Rochester e pubblicato sulla rivista accademica Personality and Social Psychology Review ha ribadito un’evidenza già conosciuta: gli studi sull’intelligenza mostrano come i non credenti abbiano risultati migliori dei credenti. L’esito non poteva del resto essere diverso: si tratta infatti della meta-analisi compiuta su 63 inchieste pre-esistenti. Ovvie le polemiche. Se n’è parlato un po’ ovunque, nel mondo: in Italia, a parte l’Huffington Post, nulla. Si può ovviamente essere scettici su studi di questo tipo: già è difficile avere una definizione condivisa di “intelligenza”, figuriamoci nel caso di uno studio che si basa su altri studi. Uno studio che, tuttavia, è stato pubblicato sulla rivista con il più alto impact factor nel settore. E che è quantomeno servito a mostrare che la correlazione negativa tra intelligenza e religiosità è documentata da ben 53 ricerche. A guardare bene, il risultato non sorprende anche per altri motivi. L’incredulità è infatti positivamente correlata anche ad altri aspetti che costituiscono solidi requisiti per una “normale intelligenza”: livello di istruzione, cultura, benessere, sicurezza esistenziale, apertura al “nuovo”, esercizio della libertà di espressione. Tuttavia, di qui a concludere che un mondo senza fede sia migliore ne corre assai. Verrebbe poi meno un confronto dialettico, e i confronti sono (quasi) sempre utili al progresso, intellettuale e non. Del resto, in un paese dall’altissima percentuale di atei come la Repubblica Ceca non si registrano livelli positivamente anormali di intelligenza. Va però anche ricordato che altre società ormai quasi senzadio come quelle scandinave stracciano le altre in tantissimi indicatori, a cominciare dall’Indice di Sviluppo Umano compilato dall’Onu. In tale classifica, agli ultimissimi posti compaiono soltanto nazioni in cui gli atei sono virtualmente assenti. Meno religione – ma sarebbe più corretto scrivere “minor invadenza delle gerarchie religiose” – assicura quasi sempre un vantaggio competitivo. Ecco, questi sono gli aspetti su cui i credenti dovrebbero interrogarsi. Perché, in fondo, lo studio di Rochester può anche nascondere una constatazione banale: chi appartiene a una minoranza è in media più intelligente di chi appartiene a una maggioranza (quasi sempre in virtù di una scelta atavica ereditata in famiglia e continuata automaticamente). L’impatto negativo che la religione può invece avere su una società, e su tutti i cervelli che la popolano, è sotto gli occhi di tutti ma – forse proprio per questo – è anche una sorta di tabù. Prova ne sia l’ennesima disavventura capitata a Richard Dawkins (nella foto). L’autore dell’Illusione di Dio ha infatti pubblicato un innocente tweet in cui ricordava che il numero di premi Nobel musulmani è inferiore a quello del solo Trinity College di Cambridge. Si è scatenata l’iradiddio degli zelanti islamici, e non solo di costoro. Come già capitato qualche mese fa, alti strali, con ripetute accuse di “razzismo”, si sono levati anche da commentatori liberal come Owen Jones sull’Independent, Tom Chivers sul Telegraph e Martin Robbins sul New Statesman. Autori che si collocano ormai all’antitesi della grande lezione libertaria di John Stuart Mill, tanto da agire applicando compulsivamente un asfissiante ed estremo politically correct. Che l’islam non sia una “razza” dovrebbe essere scontato per tutti, e che Dawkins non ce l’abbia necessariamente con la religione l’ha mostrato lui stesso in un altro tweet, in cui ha accennato ai premi Nobel di origine ebraica. La replica l’ha invece affidata a una “calma riflessione” pubblicata sul suo sito, sufficiente a non ricevere controrepliche significative. Ma il maggior sostegno Dawkins l’ha sorprendentemente ricevuto da un articolo pubblicato sul quotidiano di un paese a maggioranza islamica, il Pakistan. Sul Dawn, infatti, Irfan Husain ha ammesso che i leader religiosi islamici costituiscono un pesante handicap allo sviluppo dei paesi su cui impongono i loro precetti. L’ignoranza, piaccia o no, si accorda veramente male col progresso. Tutto molto semplice e innegabile. Islam, giova ricordarlo, significa “sottomissione”. Se i grandi capi delle comunità di fede possono pretenderla dai loro fedeli, è anche perché una caratterista diffusa della specie homo sapiens è la mentalità gregaria. Ma sottomissione e gregarismo si conciliano assai male con lo sviluppo, sia delle capacità individuali, sia delle società umane. I credenti dovrebbero ragionare su questi aspetti, anziché anatemizzare chi glielo fa notare. Anche perché è nel loro stesso interesse che continuino a farlo.