Città del Vaticano (Adriana Masotti di Vatican News) – “La mia esperienza nei tre decenni trascorsi nel sub-continente indiano si potrebbe sintetizzare nella tensione costante fra identità e pluralismo. Tensione mai semplice e, spesso, anche dolorosa, ma sempre sana e fruttuosa, dalla quale sono uscito profondamente trasformato e arricchito”. Sintetizza così Roberto Catalano la sua lunga esperienza in India di cui sottolinea la forte dimensione spirituale che ne permea tutte le manifestazioni. Insieme alla grande varietà di espressioni religiose e culturali che colorano il Paese. E scrive ancora: “L’europeo sperimenta l’attrattiva, mista ad una certa paura, del pluralismo ed è chiamato a riscoprire la propria identità profonda. È necessario il tempo e la pazienza per attendere il momento della ‘rivelazione’, quando l’India diventa la propria terra e la propria gente, senza per questo smettere di essere se stessi, con la propria storia e la propria cultura”.
Catalano: un mondo che non lascia indifferenti
Nel libro “Fra identità e pluralismo”, edito da Città Nuova editrice, l’autore cerca di rispondere alle domande, spesso alle perplessità, che riguardano il dialogo con il diverso. Il dialogo per lui è vita, testimonianza, amicizia. Questo e altro nell’intervista a Vatican News:
Roberto Catalano, qualcuno definisce quello dell’India ‘un popolo innamorato di Dio’. Vogliamo cominciare dall’impatto con questa realtà che colpisce subito chi vi arriva?
Sì, l’India è un mondo che al primo impatto immediatamente non ti lascia indifferente, provoca un rapporto di amore-odio, la si ama con tutte le sue caratteristiche, oppure non la si sopporta. L’aspetto della profondità spirituale, al di là delle apparenze, è l’aspetto fondamentale, se non si coglie questo non si riesce a capire l’India. Ma bisogna andare, appunto, molto al di là di quello che appare, proprio perché per noi occidentali – e questo lo riprendo nel libro – figli della cultura greca, procediamo per aut aut, o questo o quello. In India, invece, quello che colpisce è come loro riescano a convivere armonizzando, in modo misterioso per noi occidentali, anche degli aspetti che a noi sembrano inconciliabili.
Lei descrive l’India come un Paese dove esiste unità culturale e varietà grandissima di espressioni religiose, di riti, di credenze, dove convivono tolleranza e nazionalismo. Parla del progetto della nazione indù e sappiamo quanto è presente il fondamentalismo, lo chiama il tarlo dell’integralismo…. Come stanno insieme queste cose?
Appunto quello che dicevo prima, queste contraddizioni che a noi europei spaventano. Ora, premetto che l’induismo è sempre stata una religione, una filosofia, un modo di essere, una cultura estremamente tollerante; evidentemente come in tutte le religioni negli ultimi decenni si sono sviluppate delle correnti di fondamentalismo – questo anche all’interno del cristianesimo, in alcune fasce del cristianesimo abbiamo questi fenomeni – e questo è molto evidente anche in India. In effetti, quello attuale è un governo che sposa questa linea fondamentalista e questo fenomeno del fondamentalismo è oggi un grosso tarlo all’interno del suo sistema democratico politico e sociale. Non bisogna prendere però tutti gli indù e tutti gli indiani per fondamentalisti, assolutamente no, si farebbe un errore madornale. Certo è che l’India deve trovare dei nuovi meccanismi per riuscire ad armonizzare le tensioni, così come ha fatto sempre di fronte a quelle che si è trovata a vivere lungo i secoli, e questo deve avvenire anche oggi.
Nell’introduzione lei racconta che negli anni vissuti in India, incontrando persone di altre culture e religioni, ha dovuto sempre fare i conti con la sua identità di cristiano e di occidentale. Che esperienza è stata?
Vero e per spiegarlo faccio riferimento ad un episodio. Ero da poco in India ed ero stato invitato ad un incontro interreligioso. C’erano con me due amici anche loro cristiani, uno indiano e l’altro italiano, e a un certo punto, appena entrati, un Sik è venuto verso di noi dando per scontato che fossimo dei cristiani cattolici proprio perché eravamo stranieri, quindi giocoforza per lui dovevamo essere cattolici. E ci dice una frase che mi è sempre rimasta impressa nella mente e nel cuore: “da voi cristiani io mi aspetto che mi mostriate Cristo, io in voi voglio incontrare Gesù Cristo”. E’ stato un fulmine a ciel sereno. Perché mi chiedevo sempre come si poteva dialogare con persone di così tante religioni e in effetti ho dovuto scoprirlo poi nel corso dei decenni, ma mi è sempre rimasta fissa l’idea che per dialogare non dovevo fare dei compromessi con la mia identità. Anzi al contrario, dovevo approfondirla per poter essere quello che gli altri si aspettavano di incontrare in me e con me, per cui nel mio percorso di dialogo in tutti questi anni, ho avuto la possibilità di incontrare persone delle religioni più diverse e anche delle culture più diverse e mi sono sempre trovato a fare i conti con quello che sono io e quello che sono gli altri, ma non ho mai dovuto allentare la presa sulle mie radici, anche se mi rendevo conto che dovevo cercare di dimenticarle le radici, per entrare a far parte di quello che gli altri erano, ma al contempo dovevo – come dice Papa Francesco e lo diceva in Corea quindi in Asia – aprire le mie porte perché gli altri potessero entrare in me, quindi un gioco fra identità e pluralismo, come dice bene il titolo del libro esprimendo proprio il cuore della mia esperienza.
Nel libro, centrale è il concetto del dialogo con l’altro. Ma che cosa significa veramente mettersi in dialogo con altre persone?
Il dialogo è un concetto oggi inflazionato, tanto che alcuni non lo vorrebbero più né sentire né usare, è di difficile definizione. Per la mia esperienza – e lo è ancora perché lavoro ancora molto nel campo del dialogo interreligioso e interculturale -, il dialogo è stato l’incontro con l’altro, col diverso per cercare di capire il senso che l’altro o l’altra hanno, come una volta mi disse un rabbino ebreo, il dialogo è assicurare all’altro la possibilità di essere altro, quindi di non volerlo fare un altro me o di volerlo definire secondo le mie categorie, come tante volte noi occidentali abbiamo fatto. Il dialogo è proprio assicurare all’altro di essere quello che è, in modo tale che possa arrivare a me e anche a tutti gli altri con la sua ricchezza che è insostituibile come anche la mia lo è, e questo richiede quindi una reciprocità.
Che cosa ha prodotto in lei il contatto con le altre religioni e che cosa può imparare il cristiano dalle altre religioni?
C’è sempre molto da imparare, gli anni vissuti in India mi hanno arricchito profondamente. Faccio un esempio pratico. Io vengo da una preparazione filosofica, ho studiato filosofia all’Università di Torino, sono sempre stato credente e arrivando in India, nel corso degli anni, mi sono accorto che a contatto non soltanto con i cristiani indiani, ma con gli indù, in particolare, ho potuto conoscere una dimensione di Cristo che non avevo colto negli anni della mia formazione e crescita all’interno del mondo occidentale. Gesù dice “Io sono la via la verità e la vita”, e in India mi sono reso conto come il mio background filosofico mi aiutava a vedere Gesù come la verità. La cultura Indù mi ha aiutato a cogliere quanto Gesù, che gli Indù amano profondamente e di cui spesso hanno l’immagine nelle loro case, sia anche la via e, in effetti, la via è proprio il nome che le religioni orientali usano per definire il loro essere religione. Questo è un piccolo esempio: non voglio dire che io ho imparato Cristo dagli Indù, però voglio dire che ho colto una dimensione di Cristo che diversamente non avrei approfondito.
Mi pare che la proposta conclusiva del libro sia quella di cui tante volte parla Papa Francesco, cioè la costruzione di una cultura dell’incontro e dell’amicizia. E lei sostiene anche che Papa Francesco è parametro di equilibrio fra identità e pluralismo…
Sì, io mi sono chiesto spesso dove potevo trovare una chiave di lettura per la mia esperienza in India e devo dire che nel magistero di Papa Francesco ho trovato una chiave privilegiata, per vari motivi. Innanzitutto, proprio perché Papa Francesco parla del dialogo come di un’esperienza di incontro, di amicizia. Questa è stata la mia esperienza, ma anche per una categoria che ormai mi è diventata molto cara di Papa Francesco che lui chiama il “pensiero incompleto”. Lui parla di questo “pensiero incompleto” per il fatto che nessuno di noi può dichiarare di possedere la verità, perché è la verità che ci possiede in quanto la verità è Cristo e quindi è senz’altro più grande di noi. E penso che proprio questa categoria che Papa Francesco propone possa essere una chiave di lettura fondamentale. Certo, noi siamo cristiani attingiamo alla pienezza della verità che si è espressa in Gesù che ha camminato su questa terra, che è il Figlio di Dio. Ma nessuno di noi può comprendere pienamente il valore, la profondità, l’essenza di Cristo e riconoscere questo è un grande valore e soprattutto ci può aprire veramente a dei rapporti con le persone di altre religioni e culture per creare una cultura dell’amicizia, una cultura del dialogo, e questo contribuisce poi a quella fratellanza universale di cui Papa Francesco si è fatto apostolo e testimone.