(di Guido Barlozzetti di ky4biz) – Segue per la rubrica Infodemia indigesta un’analisi di Guido Barlozzetti,”La nuda coscienza e la pandemia. Le conseguenze etiche e politiche che derivano dal dibattito fra gli scienziati” dedicata al libretto pubblicato a caldo dopo lo scoppio del Covid-19 dal filosofo Giorgio Agamben. Prendendo spunto da un’intervista a Le Monde in cui Agamben chiariva di non voler “entrare nel dibattito fra scienziati sull’epidemia” essendo interessato alle “conseguenze etiche e politiche estremamente gravi che ne derivano” Barlozzetti chiarisce subito il valore del volumetto: “Allarga lo sguardo Agamben, filosofo appartato e distonico nel panorama della parola filosofica non solo italiana, esce dalla convenzionalità irrigidita e incapace di autocoscienza dei discorsi sociali, a cominciare da quelli “concordi” anche quando sembrano conflittuali di tutto il sistema dei media, e la mette in distanza per comprenderne la consensualità nel quadro della strategia del potere nei confronti dell’umano. Distanza necessaria, eticamente necessaria, a fronte di un’altra distanza, stavolta “sociale”, ossimoro in sé già nella definizione, a cui è stata assoggettata la vita nella pandemia e che la società costretta nella paura accetta, rinunciando – chiarisce citando il testo – “alle condizioni normali di vita, ai rapporti sociali al lavoro, perfino alle amicizie agli affetti, alle convinzioni religiose e politiche”. E ancora, sottolinea, “l’homo[…] riconosciuto colpevole e quindi non sacrificabile ma uccidibile, diventa sacer, “separato”, questa spoliazione della vita di tutto ciò che la rende umana – la politica, la comunità, la cultura, la socializzazione – comincia dalla riduzione dell’unità complessa di corpo e spirito a mera esistenza biologica: “La nuda vita – scrive Agamben- non è qualcosa che unisce gli uomini, ma piuttosto li acceca e separa” . Dopo aver denunciato “un potere che […] “ha strumentalizzato la pandemia e radicalizzato la paura […] medicalizzato la vita e trasformato la salute in un obbligo giuridico” Barlozzetti osserva: “Manca ancora un passo perché il cerchio concettuale che contestualizza l’emergenza si chiuda e si saldi in un dispositivo: lo stato d’eccezione a cui il potere ricorre per sospendere tutte le garanzie istituzionali, fondato sulla decisione assoluta del sovrano, secondo una formulazione che ha il primo riferimento nella riflessione di Carl Schmitt. Il sovrano, appunto, ab-solutus, come già teorizzato da Thomas Hobbes nel Leviatano. Questo hanno deciso i poteri dominanti con il paravento dell’urgenza pandemica […] la cornice è quella della Grande Trasformazione che tiene insieme livello giuridico-politico della biopolitica, la scienza elevata a nuova religione che ha soppiantato quella cristiana e quella del denaro e, sul piano delle relazioni, le tecnologie che consentono di costituire il regime del distanziamento sociale e della connessione disumanizzante che di fatto abolisce il prossimo. Una cornice fondata su una specularità tra potere e soggettività, tra imposizione e accettazione […] prima di concludere: “la prima responsabilità tocca ai filosofi, a loro di smontare la nuova religione politico-tecnologico-sanitaria e, con loro, limite e condanna della filosofia in quanto tale, alla nostra coscienza. Nel circolo vizioso della sua nudità”.
“Non è mia intenzione entrare nel dibattito fra gli scienziati sull’epidemia, mi interessano le conseguenze etiche e politiche estremamente gravi che ne derivano”.
Così dichiara Giorgio Agamben in un’intervista a Le Monde che fa parte della raccolta dei testi sull’emergenza pandemica pubblicata con il titolo A che punto siamo? L’epidemia come politica.
Nella grande quantità di riflessioni suscitate dal Covid-19 uno dei contributi che più hanno ricondotto a una coerente e problematica dimensione filosofica la discussione sul divenire dello Stato. Un punto di vista e una cornice in cui raccogliere quello che sta succedendo in questo passaggio, nella sua relazione con l’umanità degli uomini e dunque negli effetti che su di essa si producono.
Allarga lo sguardo Agamben, filosofo appartato e distonico nel panorama della parola filosofica non solo italiana, esce dalla convenzionalità irrigidita e incapace di autocoscienza dei discorsi sociali, a cominciare da quelli “concordi” anche quando sembrano conflittuali di tutto il sistema dei media, e la mette in distanza per comprenderne la consensualità nel quadro della strategia del potere nei confronti dell’umano. Distanza necessaria, eticamente necessaria, a fronte di un’altra distanza, stavolta “sociale”, ossimoro in sé già nella definizione, a cui è stata assoggettata la vita nella pandemia e che la società costretta nella paura accetta, rinunciando “alle condizioni normali di vita, ai rapporti sociali al lavoro, perfino alle amicizie agli affetti, alle convinzioni religiose e politiche”.
Constata un altro, potente, passo che la biopolitica viene a compiere proprio approfittando della condizione dell’emergenza, un altro passo in un percorso che parte dalla polis e arriva alla modernità. Tema portante e distintivo della riflessione del filosofo, questa deriva annunciata fin da Homo sacer: “l’ingresso della zoé nella sfera della polis, la politicizzazione della nuda vita come tale contribuisce l’evento decisivo della modernità, che segna una trasformazione radicale delle categorie politico-filosofiche del pensiero classico”.
Comincia così, con l’homo che, riconosciuto colpevole e quindi non sacrificabile ma uccidibile, diventa sacer, “separato”, questa spoliazione della vita di tutto ciò che la rende umana – la politica, la comunità, la cultura, la socializzazione – comincia dalla riduzione dell’unità complessa di corpo e spirito a mera esistenza biologica: “La nuda vita non è qualcosa che unisce gli uomini, ma piuttosto li acceca e separa”.
Un potere che già faticava a ottimizzare le sue performance ha strumentalizzato la pandemia e radicalizzato la paura facendone la chiave per convincere a rinunciare in nome della pura conservazione in un circolo vizioso tra imposizione e desiderio di sicurezza.
Ha medicalizzato la vita e trasformato la salute in un obbligo giuridico: “Se la salute diventa l’oggetto di una politica statuale trasformata in biopolitica, allora essa cessa di essere qualcosa che riguarda innanzitutto la libera decisione di ciascun individuo e diventa un obbligo da adempiere a qualsiasi prezzo, non importa quanto alto…”.
È su questa base che si rovescia il rapporto con il potere: “La medicina ha il compito di curare le malattie secondo i princìpi che segue da secoli e che il giuramento di Ippocrate sancisce irrevocabilmente. Se, stringendo un patto necessariamente ambiguo e indeterminato con i governi, si pone invece in posizione di legislatore, non soltanto, come si è visto in Italia per la pandemia, ciò non conduce a risultati positivi sul piano della salute, ma può condurre a inaccettabili limitazioni delle libertà degli individui, rispetto alle quali le ragioni mediche possono offrire, come dovrebbe oggi essere per tutti evidente, il pretesto ideale per un controllo senza precedenti della vita sociale”. Manca ancora un passo perché il cerchio concettuale che contestualizza l’emergenza si chiuda e si saldi in un dispositivo: lo stato d’eccezione a cui il potere ricorre per sospendere tutte le garanzie istituzionali, fondato sulla decisione assoluta del sovrano, secondo una formulazione che ha il primo riferimento nella riflessione di Carl Schmitt. Il sovrano, appunto, ab-solutus, come già teorizzato da Thomas Hobbes nel Leviatano. Questo hanno deciso i poteri dominanti con il paravento dell’urgenza pandemica: “hanno deciso – scrive Agamben nell’Avvertenza – di abbandonare senza rimpianti i paradigmi delle democrazie borghesi, coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni, per sostituirle con nuovi dispositivi di cui possiamo appena intravedere il disegno, probabilmente non ancora del tutto chiaro nemmeno per coloro che mi stanno tracciando le linee”.
Insomma, la cornice è quella della Grande Trasformazione che tiene insieme livello giuridico-politico della biopolitica, la scienza elevata a nuova religione che ha soppiantato quella cristiana e quella del denaro e, sul piano delle relazioni, le tecnologie che consentono di costituire il regime del distanziamento sociale e della connessione disumanizzante che di fatto abolisce il prossimo. Una cornice fondata su una specularità tra potere e soggettività, tra imposizione e accettazione, in cui “la verità viene ridotta a un momento nel movimento del falso” e l’uomo oggettivato e sottoposto a un regime in cui il capitalismo si perfeziona e incorpora il Male e lo gestisce senza nessuna prospettiva finalistica o escatologica, già esaurita con la crisi della religione cristiana.
Però… però non dimentichiamo il titolo.
Certo il rischio che il dispositivo si consolidi e porti ad autoritarismi come già in passato c’è, ma il cerchio non è chiuso, non solo Agamben auspica “nuove forme di resistenza” che vadano non solo oltre la democrazia borghese, ma superino anche il dispositivo tecnologico-sanitario che le sta sostituendo e le convenzioni consumistiche e mercificanti di prima: “dovremmo, in una parola, oggi seriamente la sola domanda che conta, che non è, come ripetono da secoli i falsi filosofi, “da dove veniamo” o “dove andiamo?”, ma semplicemente: “a che punto siamo?”. È questa la domanda a cui dovremmo provare a rispondere, come possiamo e dovunque siamo, ma in ogni caso con la nostra vita e non soltanto con le parole”.
E la prima responsabilità tocca ai filosofi, a loro di smontare la nuova religione politico-tecnologico-sanitaria e, con loro, limite e condanna della filosofia in quanto tale, alla nostra coscienza. Nel circolo vizioso della sua nudità.