Firenze – Prendendo spunto da un articolo di Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti dal titolo Dante templare, massone, rosacrociano, eretico, anticattolico ed incompreso, ampiamente diffuso e discusso in ambito telematico, mi sento di esprimere un parere in merito alla tanto vexata quaestio dell’esoterismo dantesco.
Senza dubbio la presentazione di Bernardo di Chiaravalle come guida estrema e fondamentale del Viaggio verso la contemplazione ultima della ‘ruota’ di amore Verità e Gioia (Par. XXXIII) non è casuale. Bernardo è così altamente considerato in primis come grande teologo mariano e dunque ideale mediatore al fine di ottenere umilmente la necessaria grazia ed aprire la nostra coscienza, purificandola di ogni egoismo e rendendola specchio dell’infinito; ma certo Bernardo è anche il parente di quel feudatario della Champagne Hugues de Payns che fu il fondatore dell’Ordine Templare, regolamentato ed esplicitamente elogiato dal santo stesso nel 1135, nella sua opera De laude novae militiae ad Milites Templi. Nonostante questo, non possiamo dire con assoluta certezza che la presenza determinante di san Bernardo nella Divina Commedia mostri la prova definitiva di un’affiliazione occulta di Dante al gruppo dei Cavalieri del Tempio che forse avevano scoperto a Gerusalemme i segreti di proporzioni ideali e perfette rivelate a Mosè dal divino ed esplicitate da Salomone nella sua opera architettonica. Questi principi segreti rappresenterebbero basi essenziali per l’edificazione delle diverse cattedrali dell’epoca gotica, principi segreti dei più esperti maestri fra i muratori europei: quegli eredi nel Medioevo del simbolismo arcano che sarà poi tramandato ai fratelli massoni moderni. Dobbiamo comunque ricordare che Dante nel poema depreca come ingiusta la violenta soppressione dell’Ordine Templare da parte di Filippo il Bello (Purg. XX). Nella Divina Commedia, inoltre, la parola ‘tempio’ (da un punto di vista fisico-concreto e storico) viene sempre usata per indicare strutture pagane classiche oppure il Tempio di Gerusalemme e certo anche i luoghi di culto templari. In quest’ultimo senso dovremmo evidenziare un precipuo riferimento nel canto di Farinata (Inf. X), dove il poeta mostra comunque di dissociarsi dall’eccessivo rancore dei Cavalieri Templari (affiliati dei guelfi) verso i ghibellini Uberti e dalle loro preghiere per una vendetta impietosa della terribile carneficina di Montaperti. Secondo molti studiosi, esistono senza dubbio nella visione dantesca dei forti riferimenti a un esoterismo tradizionale; e questo mi sembra si debba accettare senz’altro, considerando comunque che niente in questo campo specifico, essendo per sua stessa definizione un ambito misterioso, si può affermare come assoluto. L’analisi dei ‘segni oscuri’ è infatti sempre inevitabilmente influenzata dal soggettivismo interpretativo. E dunque credo sia giusto ricordare che, a tutt’oggi, nulla di concreto a livello letterale (che è il primo livello di riferimento di ogni accorta e corretta operazione ermeneutica) ci porta a affermare con sicurezza che Dante fosse un Templare e che abbia voluto lasciarci con la Divina Commedia una sorta di ‘cattedrale poetica’ includendovi volutamente e programmaticamente elementi essenziali del simbolismo muratorio di Salomone, Mosè e, ancor prima, dei costruttori delle Piramidi e della Sfinge di Giza.
Nonostante questo, comunque, avendo studiato l’opera dantesca ormai da oltre trent’anni, mi sento proprio di dire che non ho dubbi: la Commedia è davvero divina. E, proprio parlando di letteralità e di valore assoluto della parola del nostro autore, noi non dobbiamo mettere in forse quanto lui stesso ci dice a proposito della visione e della sua conseguente rappresentazione in quel libro che non è solo un capolavoro di arte poetica, ma è insieme un vero “poema sacro,/ al quale ha posto mano e cielo e terra” (Par. XXV, 1-2). Certo, in un’epoca desacralizzata culturalmente come la nostra, quanto io affermo può a molti sembrare assurdo… eppure lo devo dire perché è necessario, in buona fede. E questo non lo dichiaro soltanto perché affascinato e travolto dall’infinita sorgente di poesia e di scienza dell’opera, così come dalla prodigiosissima investigazione della coscienza che in essa si scopre attraverso le fasi diverse del labirintico itinerario interiore, un itinerario simbolico che è autentico esempio di psicoanalisi ante litteram. No, io lo dico per quel geometrismo perfetto e non umano — ma astrale, celeste — che anima tutte le parti di questo poema, che si sviluppa come spirale, in un pensiero che germina e si avvicenda con ritmo perfetto di corsi e di ricorsi mentali capaci di rappresentare, in maniera chiarissima, affetti e pensieri tutti legati gli uni con gli altri, previsti, anticipati, proposti e riecheggiati e trascesi come per opera di alta magia. Quanto ora affermo in sintesi estrema riguarda i risultati maggiori della ricerca ermeneutica caratteristica dell’istituto internazionale di dantologia che io dirigo in Toscana e che in vari studi più precisamente io ho definito col termine di ‘sinfonismo dantesco’ e che è un ‘sinfonismo’ di mera natura compositiva e strutturale.
Secondo la tradizione massonica, le tavole ricevute da Mosè dall’Eterno, che sono scritte su entrambi i lati (Ex. XXXII, 15-16), oltre ai famosi comandamenti avrebbero pure avuto sul retro indicate le regole della perfetta geometria costruttiva divina: il segreto della creazione dell’universo, espresso in un linguaggio purissimo di armonie matematiche. La conoscenza di questo linguaggio avrebbe in seguito permesso a Salomone di costruire il suo tempio meraviglioso a imitazione di un tale processo ‘musicalissimo e proporzionato’. In questo senso, io credo che Dante poeticamente si possa senza alcun dubbio proporre come un fratello spirituale di re Salomone e di tanti altri che quanto lui hanno saputo tradurre nell’arte il respiro divino. Ho detto ‘tradurre’ e non ‘creare’ o ‘costituire’ proprio perché altro aspetto fondamentale della Commedia di Dante è l’umiltà del poeta (humilitas mariana) che sempre assurge alle vette più alte proprio nel suo rinunciare al protagonismo del solo creatore dell’opera. L’opera è sua, in quanto fatta di terra e materiata in concetti ed immagini chiare (per noi della terra), ma non è sua, d’altro canto, perché è ispirata principalmente dal cielo.
Non c’è davvero motivo di dubitare della visione avuta, descritta e testimoniata dal nostro poeta. Noi non dobbiamo discutere la sua buona fede e dunque la lettera del suo poema, cioè a dire quel senso più letterale del suo parlarci nelle diverse parti del libro dove ci dice che tutto — tutto il viaggio — è stato da lui percepito in una fase di trasognamento: non ‘sogno’ comunque, bensì appunto ‘visione’, visione di cose inviate dall’alto, dall’alto dal grande mistero al di fuori di noi. Prima di preoccuparci di ciò che la lettera della Commedia non dice esplicitamente, prima di chiederci se Dante fosse un templare un antico massone, un precursore dei rosacroce del XV secolo o magari un iniziato del tasàwwuf, che è poi l’islamico misticismo dei sufi (e in questo caso comunque siamo sicuri che il nostro poeta conoscesse bene il pensiero di Abu Hamid al-Ghazali), noi ci dovremmo a mio avviso porre quella che è una domanda fondamentale: crediamo o non crediamo all’onestà intellettuale di Dante, crediamo alla visione?
Il mio parere è che il poeta non abbia avuto bisogno di essere adeguatamente iniziato da un gruppo di confratelli per fare quello che ha fatto artisticamente. Il poeta, come egli stesso ci dice, ha avuto infatti una visione. E questa — per sé — ha davvero costituito la fondamentale esperienza iniziatica che sta alla base della Divina Commedia. Tale visione ha posto Dante in contatto (così, faccia a faccia, spontaneamente) con una messe di simboli arcani che fanno parte di un patrimonio originario, un tesoro di vera sapienza che nel fluire del tempo e della storia viene adombrato in varie forme dai più diversi rituali misterici. È ovvio comunque: quello che Dante ha ‘veduto’ nel mezzo del suo cammino esistenziale non era certo alla lettera quanto ha descritto negli anni a venire nei suoi tre libri. Infatti l’arte (la maestria dell’artista) e poi anche ispirazioni ulteriori gli hanno permesso di ripercorrere e di spiegare in dettaglio, precisamente, le caratteristiche di un improvviso e sinergico, totalizzante ‘vedere’. Questa è la fantasia del poeta.
La fantasia, da un lato, in senso scolastico (seguendo Maimonide e san Tommaso), appare come una forma imperfetta di rivelazione, quel «casus a prophetia» che è quasi un cascame, un frutto immaturo che scivola via e si stacca dai rami del Vero; comunque, da un altro lato, la stessa per Dante non è solo più quel concetto che è tipico del Medioevo, la cosiddetta ‘phantasia’, una mera rappresentazione di ciò che vediamo attraverso i nostri sensi o gli influssi degli astri oppure il volere divino (Purg. XVII). No, non è questo. Non è più questo.
Dante è uno spirito innovativo e moderno. Lui apre le porte alla modernità con un sentimento diverso della poesia che non è mai descrizione pedissequa di ciò che si osserva, ma è un ripercorrere le varie strade dei propri pensieri e dei simboli che entrano dentro la mente dell’individuo: artista e uomo libero. L’uomo-poeta per Dante (come dirà poi Ficino, un secolo dopo) deve essere ‘mago’, e dunque collaboratore — dal basso dalla sua terra — del piano divino. Lui ha ricevuto l’incarico di custodire il giardino del mondo creato, ai tempi di Adamo. Poi ha commesso l’errore. E dopo, come un artista e come un poeta, lui deve ancora lasciarsi ispirare dall’alto, lui deve rappresentare le cose non solamente per quello che sono, ma come dovrebbero essere, come dovranno essere al fine, alla fine dei tempi io voglio dire… quando l’errore scomparirà dalla terra ed essa diventerà uno specchio del cielo. Dante è capace di intravedere in questo specchio e ci offre dunque un’immagine di perfezione e un miraggio di riferimento ideale in quel suo gran libro.
È vero — e il nostro poeta ce lo confessa impotente alla conclusione, ma anche nel corso dell’opera — la sua parola non può rappresentare compiutamente quello che ha visto e, in particolare, quello che ha scorto al di là della sfera terrestre, nel paradiso, immagine somma di perfezione. Comunque, anche nel fallimento, quella parola, quel ‘fare poetico’, diventa ogni volta capace di rivelare, ci lascia intuire per via amorosa, sentimentale, quanto non dice perché è indicibile… è il puro ineffabile. E poi la struttura compositiva, la geometria dei pensieri, rispecchia anch’essa (sì, quasi attraverso la concisione di un mandala) ciò che è distante da noi: Sublime Intoccabile.
Il balzo stilistico e contenutistico, rispetto allo Stilnuovo, il miracolo di verità travolgente dell’improvviso realismo espressivo della Divina Commedia sono un prodigio, un’epifania. No, non si spiegano, se non ammettendo fra le due fasi fondamentali dell’esistenza dantesca — la vita a Firenze e la vita d’esilio — un’esperienza scioccante e ‘iniziatica’, anche se io non voglio proporre ovviamente quest’ultima aggettivazione nel mero senso esclusivo e ritualizzato dell’esoterismo tradizionale. Qualcosa di enorme è dunque avvenuto che ha provocato nel cuore dantesco una profonda e radicale trasformazione, portandolo a un sentimento diverso, più forte e più vero dell’essere. Dante ‘sapeva’ del Grande Architetto. Questo per me è sicuro. Era un templare, un massone?… Di nuovo, a tutt’oggi non lo possiamo affermare con assoluta certezza. Ma poi è davvero importante?… Comunque, se anche non fosse stato un fratello dei liberi muratori, Dante fu senza dubbio un artista ispirato dal Muratore.
Marino Alberto Balducci