(Marcello Palmieri di Avvenire) – Esporre il crocifisso nelle scuole non è una condotta discriminatoria. Lo ha stabilito la Suprema Corte, che nella sua composizione più autorevole – le Sezioni Unite – con la sentenza 24414/2021 pubblicata ieri mattina ha chiarito definitivamente che il maggiore simbolo del cristianesimo può rimanere nelle aule. Basta che a volerlo sia «la comunità scolastica», la quale può anche decidere di accompagnarlo “con i simboli di altre confessioni presenti in classe – così si esprime il comunicato stampa diffuso dalla Cassazione – e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”.
La questione non è solo religiosa. Per la Corte infatti al crocifisso “si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo”. Per questo, a maggior ragione, la sua affissione “non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione”. Sotto il profilo prettamente giuridico, gli ermellini – come vengono chiamati i giudici della più alta corte italiana, per via della toga nelle occasioni più formali – ricordano innanzitutto come un regolamento degli anni Venti, mai abrogato, avesse imposto la presenza del crocifisso nelle aule. “Ogni istituto – si legge in quel testo – ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re”. È vero, allora il cattolicesimo era “religione di Stato”. Ma la Suprema Corte nella sentenza di ieri ha chiarito che la norma di un secolo fa è suscettibile di essere interpretata oggi in senso conforme alla Costituzione. In parole povere: se la scuola nelle sue varie componenti lo vuole, il crocifisso può e deve restare, perché “il venir meno dell’obbligo di esposizione – si legge in sentenza – non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche”. Attenzione: se l’istituto, studenti compresi, decide di tenerlo, nessuno può toglierlo a piacere, come invece aveva fatto il docente da cui era scaturito il caso giudiziario.
Con la pronuncia di ieri, sotto il profilo tecnico-giuridico, le Sezioni Unite hanno dato risposta alle questioni contenute nella cosiddetta “ordinanza di rimessione”, quella cioè in cui una singola sezione della Suprema Corte – nel nostro caso la sezione lavoro –, ritenendo che la questione a essa sottoposta sia molto controversa e di particolare importanza, chiede che sia decisa in composizione plenaria. L’anno scorso, nel devolvere la vicenda alle Sezioni Unite, la Cassazione aveva preso le mosse da una sentenza pronunciata nel 2011 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu): il crocifisso, avevano scritto i giudici di Strasburgo, è «un simbolo essenzialmente passivo», per cui “dalla sua sola esposizione […] non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato”. Ciò premesso, la sezione lavoro della Suprema Corte riteneva che il caso su cui ha poi deciso fosse un poco diverso: a contestare il simbolo cristiano non era uno studente ma un professore. Non dunque un utente del servizio, ma un educatore. E proprio per questo, temeva la Corte, “l’esposizione del simbolo” avrebbe rischiato di attribuire “uno stretto collegamento tra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama”. Le Sezioni Unite, però, hanno sgombrato il campo da questo timore. D’altronde, già nel 2006, il Consiglio di Stato aveva visto nel crocifisso “un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti…)» che “delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato”.
La Cei: applicata libertà religiosa
“Il crocifisso non discrimina”. È la sintesi della sentenza che la Cei affida a una nota diffusa ieri sera dall’Ufficio Comunicazioni sociali. “La sentenza con cui la Corte di Cassazione è intervenuta sulla vicenda sollevata in una scuola di Terni – prosegue il comunicato – ribadisce che “l’affissione del crocifisso – al quale si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo – non costituisce un atto di discriminazione”. A parere di monsignor Stefano Russo, segretario generale della Cei, “i giudici della Suprema Corte confermano che il crocifisso nelle aule scolastiche non crea divisioni o contrapposizioni, ma è espressione di un sentire comune radicato nel nostro Paese e simbolo di una tradizione culturale millenaria. La decisione della Suprema Corte – aggiunge Russo – applica pienamente il principio di libertà religiosa sancito dalla Costituzione, rigettando una visione laicista della società che vuole sterilizzare lo spazio pubblico da ogni riferimento religioso. In questa sentenza la Corte riconosce la rilevanza della libertà religiosa, il valore dell’appartenenza, l’importanza del rispetto reciproco”. Riservandosi un giudizio più approfondito dopo la lettura integrale della lunga e complessa sentenza, Russo osserva come sia “innegabile che quell’uomo sofferente sulla croce non possa che essere simbolo di dialogo, perché nessuna esperienza è più universale della compassione verso il prossimo e della speranza di salvezza. Il cristianesimo di cui è permeata la nostra cultura, anche laica, ha contribuito a costruire e ad accrescere nel corso dei secoli una serie di valori condivisi che si esplicitano nell’accoglienza, nella cura, nell’inclusione, nell’aspirazione alla fraternità”.