(Sarah Parenzo di La Regione) – Alla vigilia del Capodanno ebraico incontro Abraham Yehoshua nel suo luminoso appartamento vicino a Tel Aviv. Lo scrittore che, come lui stesso ha reso noto in numerose interviste, negli ultimi anni combatte una faticosa battaglia contro il cancro, è da poco tornato dal festival del cinema di Gerusalemme dove si è svolta la prima del documentario ‘L’ultimo capitolo di A.B. Yehoshua’ diretto dal regista israeliano Yair Qedar.
Che cosa può anticipare di questo “ultimo capitolo” che ci auguriamo duri ancora a lungo?
In seguito all’uscita del romanzo ‘Il tunnel’ pensavo che non avrei più scritto, anche per ragioni di salute, ma poi la musa ispiratrice è tornata e ha portato con sé una novella, ‘La figlia unica’, che uscirà in italiano con Einaudi nel mese di novembre ed è ambientata in Italia. In Israele la novella sta avendo un successo inaspettato e così ne sto scrivendo un’altra.
Alcune scene del documentario sono girate in occasione di una sua visita a Ramallah. Guardandole ho pensato subito al meraviglioso festival culturale da lei descritto circa vent’anni fa nel libro ‘La sposa liberata’, nel quale israeliani e palestinesi si dilettavano di poesia e teatro “ospitandosi” reciprocamente nelle rispettive lingue ebraico e arabo grazie al raffinato uso della traduzione. Le sembra uno scenario ancora attuale?
Quando cominciai a scrivere ‘La sposa liberata’ ero contagiato dall’ottimismo che aleggiava all’indomani degli Accordi di Oslo. Poco dopo, tuttavia, scoppiò la Seconda Intifada e l’entusiasmo svanì insieme alle speranze. Lo scenario è molto cambiato da allora e lo stesso vale per la mia visione politica che negli ultimi anni ha subito un cambiamento di rotta portandomi a rinunciare al progetto di due Stati, che ho appoggiato instancabilmente nel corso della maggior parte della mia vita adulta, a favore di uno Stato unico per israeliani e palestinesi.
Potrebbe spiegarci cosa l’ha condotta a modificare la sua visione?
La soluzione dei due Stati sta svanendo a causa degli insediamenti in continua espansione in Giudea e Samaria. Infatti, secondo molti esperti che conoscono bene la realtà demografica e geografica, non è più possibile dividere la terra di Israele in due Stati sovrani. Allo stesso modo, la possibile ripartizione di Gerusalemme in due capitali separate da un confine internazionale sta diventando sempre più insostenibile. Perciò, benché si tratti della soluzione politica maggiormente sostenuta e sbandierata, sia dalle parti in causa, che dalla maggioranza della comunità internazionale, se esaminiamo la situazione con onestà intellettuale dobbiamo ammettere che essa non sia più praticabile. Ciò che è in pericolo ora non è l’identità ebraica e sionista di Israele, quanto la sua etica e la sua umanità. Il nostro caso non è come quello degli americani in Vietnam, dei francesi in Algeria né dei sovietici in Afghanistan, che un giorno si alzano e se ne vanno. Noi vivremo con i palestinesi per l’eternità, e ogni ferita e rottura nei rapporti tra i due popoli sarà scolpita nella memoria e trasmessa di generazione in generazione. La propagandata soluzione dei due Stati è diventata solo una copertura infida e ingannevole di quella che da occupazione feroce si sta trasformando in un vero e proprio stato di apartheid. Di conseguenza ritengo che si abbia il dovere morale di ricercare altre soluzioni che possano fermare questo processo modificandone il corso.
Dove pensa che risieda la singolarità del conflitto israelo-palestinese, parola tra l’altro poco appropriata perché denota una simmetria in realtà inesistente? Apparentemente si tratta di due popoli che da oltre settant’anni rivendicano la sovranità sullo stesso territorio, una sorta di disputa sulla “piena proprietà” di una particolare regione. Ma forse c’è dell’altro a rendere un compromesso o una conciliazione così difficili da raggiungere?
Negli anni sono arrivato alla conclusione che la causa va ricercata nella combinazione di due “difetti” sostanziali di entrambe le parti la cui espressione si trova da una parte nella degradante penetrazione dell’identità palestinese attuata attraverso gli insediamenti ebraici nei territori, e dall’altra nel sacro principio palestinese del ritorno dei profughi alle proprie case all’interno dello Stato di Israele vero e proprio.
Per quanto riguarda le responsabilità che attribuisco agli ebrei si tratta di argomenti che ho trattato ampiamente nei miei saggi ai quali rimando i lettori. In particolare mi sono soffermato sul processo d’indebolimento dell’elemento “patria” nell’identità ebraica che ha lasciato troppo spazio alla componente religioso-divina. Religione e lingua possono infatti essere condivise da più popoli, ma è il territorio che crea la base distintiva della nazionalità. Invece l’esilio è una piaga radicata nell’identità ebraica. Per quasi 2’000 anni, infatti, la stragrande maggioranza del popolo ebraico non ha vissuto nella “patria” concessale da Dio, bensì nelle patrie di altri popoli. Il rapporto tra il numero di ebrei che hanno preferito vivere di propria volontà fuori dalla Terra d’Israele e quelli che vi hanno risieduto fino alla fondazione di Israele è sbalorditivo. Ricorrendo a un’immagine, possiamo dire che la maggioranza degli ebrei ha trattato e continua a trattare le patrie altrui come una catena alberghiera, e così, insieme alla “libreria ebraica”, si sposta di albergo in albergo secondo le mutate condizioni di alloggio. Anche se gli ebrei hanno cercato nel corso della storia di comportarsi come buoni ed educati clienti in questi “alberghi”, la loro stessa presenza ha fomentato reazioni dure che, da divieti d’ingresso, conversioni forzate e rigide legislazioni, sono sfociate nell’annientamento più duro e crudele mai subito da un popolo nella storia dell’umanità, ovvero la Shoah.
Parallelamente allo storico disprezzo degli ebrei per il territorio come base primaria dell’identità nazionale, troviamo nei palestinesi un “difetto” opposto. Non sono certo un esperto di nazionalismo palestinese, ma non posso non rilevare che per il palestinese, la casa, o il villaggio di origine, e non l’intero territorio della Palestina, simboleggiano il cuore della sua identità. Eppure i palestinesi che abitano nei campi profughi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non sono in realtà rifugiati, bensì sfollati che ancora vivono nella loro patria. L’insistenza nel vedere la propria casa o villaggio come la fonte primaria e quasi esclusiva dell’identità nazionale attraverso il “diritto personale” del rifugiato a tornare alla propria casa esaspera e sostiene il confronto con la nazionalità ebraica.
Accanto a questo vi è naturalmente anche la questione demografica complicata dagli oltre 400mila israeliani che risiedono oggi negli insediamenti di Giudea e Samaria.
Sino a ora abbiamo parlato solo di aspetti negativi. Cosa abbiamo invece all’attivo?
La convivenza relativamente riuscita tra ebrei e palestinesi israeliani, nonostante tutte le drammatiche vicissitudini vissute da entrambe le parti in settant’anni. La cittadinanza israeliana, imposta o concessa ai palestinesi nel 1949 alla conclusione della Guerra d’Indipendenza, ha creato una base concreta per i rapporti tra maggioranza e minoranza nello Stato ebraico, con la sua ampia minoranza nazionale e non territoriale del 20 per cento. Con tutte le lamentele e le accuse di entrambe le parti, giuristi, medici, infermieri, scienziati, ingegneri, politici, intellettuali e artisti palestinesi, testimoniano che, nonostante le difficoltà e le ingiustizie, la maggioranza ebraica è riuscita, di fronte a un gruppo di popolazione abbastanza ampio, a mantenere la cooperazione e la convivenza nel caos mediorientale. Non solo, ma oggi come sapete un partito israelo-palestinese è parte del governo. I palestinesi sono nativi di questa patria da generazioni, la maggior parte di loro conosce anche l’ebraico, ha familiarità con i codici israeliani e sarebbe possibile creare una partnership ragionevole con loro a beneficio di tutti – uno status quo umano che garantisca lo stato civile a ogni persona.
Come pensa si potrebbe procedere verso questo Stato unico?
Ho presentato la bozza di un piano unilaterale destinato a Israele che, nonostante i numerosi problemi e ostacoli, è ancora in grado di realizzarsi. Innanzitutto il piano riguarda la Cisgiordania, ovvero la Giudea e la Samaria e richiede uno stop assoluto alla costruzione di nuovi insediamenti e all’ampliamento di quelli esistenti. Lo status di residenza sarebbe offerto a tutti i residenti della Cisgiordania seguito, entro cinque anni, dalla cittadinanza israeliana, con tutti i diritti e gli obblighi connessi. Verrebbe organizzato un adeguato compenso di terra o denaro per le espropriazioni effettuate dal 1967. A Gerusalemme, la cittadinanza sarebbe stata offerta immediatamente a tutti i palestinesi già in possesso dello status di residenza, concesso a seguito dell’annessione della parte orientale della città e dei villaggi circostanti nel 1967. Le misure di sicurezza e i posti di blocco rimarrebbero in vigore secondo necessità, ma in linea di principio sarebbe consentita la libera circolazione dei palestinesi dentro e intorno a Israele, come è permesso oggi ai palestinesi residenti a Gerusalemme e a una parte significativa dei palestinesi che risiedono in Giudea e Samaria. Un’opzione generosa, sarebbe proposta per la riabilitazione dei rifugiati. I luoghi santi della Città Vecchia di Gerusalemme verrebbero amministrati congiuntamente dalle tre grandi religioni. La forma di governo di Israele da parlamentare diverrebbe un regime presidenziale. Il Paese verrebbe diviso in distretti, con maggiore autonomia in materia di leggi comunali, e naturalmente a tutte le questioni relative a istruzione, cultura e soprattutto religione. Il sistema elettorale sarebbe basato su elezioni regionali, al fine di migliorare l’efficacia dei distretti (come in Gran Bretagna e in altri Paesi). Le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese, con le quali ora si effettua una ragionevole cooperazione, sarebbero unite a quelle di Israele in una forza di polizia congiunta. La carta d’identità dei nuovi cittadini palestinesi riporterebbe la dicitura “La Federazione israelo-palestinese”, ma in termini di diritti e obblighi essi corrisponderebbero a quelli garantiti dalla carta d’identità israeliana. La Legge (ebraica) del Ritorno rimarrebbe in vigore, ma con un esame maggiormente rigoroso. Il ritorno dei profughi palestinesi da fuori Israele-Palestina non sarebbe invece consentito, se non all’interno di un rigoroso quadro di unificazione familiare.
Ai membri dell’Unione europea e agli altri Paesi del mondo verrebbe chiesto un generoso prestito/sovvenzione per il processo di accoglienza, integrazione e riabilitazione dei profughi dei campi. Infine la Federazione israelo-palestinese chiederebbe di entrare a far parte della comunità europea esistente come membro associato.
Sembra un progetto molto ambizioso e articolato sulla carta, ma come pensa che gli ebrei saranno disposti a rinunciare al sogno dello Stato ebraico? Si sentono già minacciati così, per non parlare degli ebrei della diaspora che finanziano moltissime iniziative per alimentare la stessa illusione. La demografia si invertirebbe nel giro di pochi anni e poi?
L’identità ebraica (comunque venga interpretata) è esistita per migliaia di anni come una piccola minoranza all’interno di nazioni grandi e potenti, quindi non c’è motivo per cui non sopravviva nello Stato israeliano, anche se questo contiene una minoranza palestinese tale da poter essere definito uno Stato binazionale. Si consideri il fatto che nel 1967 non c’era nemmeno un palestinese a Gerusalemme, la capitale di Israele, mentre ora, 50 anni dopo, ci vivono 300mila palestinesi. L’identità ebraica di Gerusalemme è diminuita o è cresciuta? Molti direbbero che l’identità ebraica di Gerusalemme si è solo amplificata anche in termini di osservanza religiosa.
Avrei ancora molte domande e soprattutto non abbiamo parlato di Gaza sulla quale so che nutriamo opinioni discordanti. Ma se tornassimo un momento al festival culturale di Ramallah che ha immaginato, come lo collocherebbe rispetto al progetto dello Stato Unico di cui abbiamo parlato?
Direi che la cooperazione e lo scambio tra intellettuali israeliani e palestinesi deve essere l’obiettivo nel lungo periodo, ma nello stesso tempo il mezzo, nel presente, per spianare la strada e preparare il terreno per una convivenza pacifica. Shanà tovà, buon anno 5782!