Livorno – «Questo non è un miracolo». Ma lei ci crede nei miracoli? «Diciamo che ci sono cose che noi scienziati non riusciamo a spiegare». L’ultimo caso inspiegabile si è verificato al Meyer martedì mattina. Ma non si tratta del bimbo di Livorno. Il professor Lorenzo Genitori, il neurochirurgo che l’ha operato ne è sicuro, nonostante il parroco di Montenero e il vescovo Simone Giusti la domenica di Pasqua abbiano raccontato una storia finita bene dopo le preghiere di babbo e mamma al santuario di Montenero. Il professore però di miracoli se ne intende. In sala operatoria soprattutto e pure fuori. Quello delle risposte che la scienza non riesce a dare è un tarlo che non gli dà tregua. Sta terminando proprio in questi giorni uno studio su San Giuseppe Moscati con l’assenso del cardinale Sardi, l’alto prelato membro della commissione Vaticana che si occupa dei miracoli (Genitori non fa parte della commissione, ma indaga sui tre miracoli di San Giuseppe). Gerusalemme gli ha «cambiato la vita». È dopo il viaggio in Terra Santa che uno dei più grandi neurochirurghi italiani è diventato credente. Per lui Scienza e fede «vanno di pari passo, non sono in contraddizione». E quindi lei fede la «porta anche in sala operatoria? «No, resta fuori. Noi siamo scienziati, chirurghi. La fede non è uno strumento da tirare fuori in sala operatoria dove ci vuole precisione, riflessione scientifica». Ma lei crede nei miracoli? Ha assistito a miracoli? «Diciamo che in 30 anni di attività ho avuto pazienti che sono guariti in maniera inspiegabile. Fuori dai canoni scientifici del momento». Questo vuol dire che un miracolo resta tale fino a che non subentra col tempo una spiegazione scientifica? «Questo concetto è ben spiegato nei decreti delle commissioni mediche che valutano i miracoli. Ogni decreto si conclude così: ‘‘La guarigione è avvenuta tramite il Santo e secondo le conoscenze mediche del momento’’. Detto questo a tutti noi capita di avere a che fare con guarigioni inspiegabili. Ci possono essere due pazienti con la stessa malattia, uno guarisce e uno muore. Evidentemente c’è qualcosa di diverso dentro ognuno di noi. Ecco, io non parlo di miracoli, ma di cose inspiegabili. L’ultima è successa stamattina (martedì, ndr). Cose che rientrano nella sfera della misticità». Ce la può raccontare? «Una bambina che era ricoverata da due mesi e sottoposta a leniterapia. Noi stessi avevamo detto basta, non restavano che le cure che alleviano il dolore. Stamattina quella bimba è tornata a casa». Vuol dire che è guarita? «È tornata a casa. E non sappiamo il perché». Lei allora come si spiega il caso del bimbo di Livorno guarito dopo il suo intervento e le preghiere al santuario di Montenero e a Santa Gemma Galgani? Vescovo e parroco di Montenero dicono che si sia trattato di grazia divina? «Guardi questo è un bambino che aveva un tumore con un basso grado di malignità. Diciamo che abbiamo lavorato bene e che in casi del genere la percentuale di guarigione è del 95%. Diciamo che non c’è stato miracolo». Professore io non ho capito se il suo essere credente le provoca un conflitto con il suo essere scienziato. «Assolutamente no. La fede non è la fede nel paradiso o nell’inferno. Per me è la certezza che la scienza non arriva a capire tutto. È qui che si entra nella sfera mistica, dove ci sono risposte per tutti. Se non ci fosse il misticismo non ci sarebbero le religioni e nemmeno i miracoli». Lei è direttore di un dipartimento dove arrivano bambini malati di tumore. Dove i «nostri» cuccioli hanno la testa rasata. La sua fede è sempre incrollabile? «Mai un cedimento. Perché la prima cosa fondamentale per chi lavora in un ospedale è saper ascoltare, avere una strategia di cura e saperla spiegare ai genitori e ai pazienti. Tutto così diventa più facile». Forse perché avere una strategia vuol dire avere sempre una speranza? «La speranza la devi avere sempre. Capita pochissime volte di non averla e io non la nego mai a nessuno. Per i bambini poi, diversamente dagli adulti, una strategia di cura c’è sempre e su una cosa si sbaglia: noi i bambini non li rasiamo più dal 1986 proprio per questa ragione. Per limitare l’impatto della malattia su loro stessi e le famiglie. Per tenere sempre accesa la fiamma della speranza. Questo è il vero miracolo».
Alessio Gaggioli