(da today.it) – Mancano seminaristi, ormai sono mosche bianche nell’Italia di fine 2021. Nessuno o quasi vuole più farsi prete. Come mai? Partiamo dai dati. Sono 1.804 i seminaristi diocesani in Italia e confermano il trend in calo delle vocazioni che si registra da cinquant’anni. Nei dieci anni che vanno dal 2009 al 2019, la flessione in Italia dei seminaristi diocesani è di circa il 28%.
Calabria e Basilicata le regioni con più seminaristi
Passando ai dati regionali, degli attuali seminaristi la maggior parte si trova in Lombardia con 266 unità (15% del totale) e nel Lazio con 230 (13%), mentre la Basilicata e l’Umbria sono le regioni con la numerosità assoluta più bassa, facendo registrare rispettivamente 26 seminaristi (1,4%) e 12 (0,7%). Un quadro che tuttavia cambia – riferisce il Sir – se si rapporta il numero dei seminaristi agli abitanti del territorio. In questa classifica, infatti, a primeggiare sono due regioni del Sud: la Calabria e la Basilicata.
A livello di provenienza geografica, il 10% dei seminaristi proviene da altre parti del mondo e la metà di essi frequenta un seminario del Centro Italia. L’Africa è il continente maggiormente rappresentato: oltre un terzo dei seminaristi stranieri (38,5%) proviene da queste terre, in particolare da Madagascar, Nigeria, Camerun e Costa d’Avorio. Dal continente europeo proviene circa uno straniero su cinque, in particolare da Polonia, Albania, Romania e Croazia.
“Se mancano le vocazioni non è un problema sociologico, o non soltanto”, osserva don Michele Gianola, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale della pastorale per le vocazioni: “Somiglia più al sintomo di una malattia della quale trovare una cura. Chiudersi, difendersi, scansare ogni prova, immunizzarsi contro la vita non sono sicuramente orizzonti nei quali può fiorire la vita – e la vocazione – che ha bisogno di aprirsi, entrare in contatto, affrontare le sfide, correre alcuni rischi. L’Italia è da evangelizzare come è da evangelizzare il cuore di ciascuno, sempre” continua Gianola.
Il maggior numero di seminaristi (43,3%) ha un’età compresa tra i 26 e i 35 anni. La generazione più giovane – quella tra i 19 e i 25 anni – è rappresentata da 4 seminaristi su 10 (il 42,2% del totale). Un seminarista su dieci (13,6%) ha più di 36 anni. Persiste la tendenza a provenire da famiglie con più figli: un solo seminarista su dieci è figlio unico, il 44,3% ha un fratello o una sorella, un quarto ne ha due (25,4%) e uno su dieci ne ha tre (10,8%).
La stragrande maggioranza dei seminaristi ha frequentato le scuole superiori in una struttura statale (l’87,4%) e uno su dieci (il 12,6%) in una struttura paritaria. Tra i percorsi formativi offerti il 28,1% ha compiuto studi umanistici-classici, il 26,9% scientifici e il 23,2% si è diplomato in istituti tecnici. Solo uno su dieci (il 10,8%) ha fatto studi professionali. “Un panorama notevolmente cambiato rispetto a qualche decennio fa, quando la quasi totalità dei candidati al sacerdozio – commenta l’agenzia stampa della Cei – era in possesso della maturità classica”. Circa la metà dei seminaristi (il 45,9%), inoltre, ha frequentato l’università con indirizzi molto variegati e poco meno (43,3%) ha lavorato.
Quanto guadagna un prete
In passato le cose erano ben diverse. Ma era un’altra Italia: un tempo ogni famiglia potente “costringeva” almeno un figlio a diventare prete, mentre al contrario le famiglie più povere mandavano i figli in seminario per avere una bocca in meno da sfamare. Rimane anche oggi la tendenza a provenire da famiglie con più figli: un solo seminarista su dieci è figlio unico. Non è certo l’ambizione economica a poter fare la differenza però. Un semplice prete prende circa mille euro netti al mese, poi vengono i parroci (che non possono guadagnare più di 1.200 euro al mese). I mensili dei sacerdoti e dei vescovi sono basati su una specie di punteggio che dipende dall’anzianità. I parroci con più esperienza possono arrivare fino a 1.200 euro al mese, mentre per i vescovi si arriva fino a 3.000 euro circa.
Il percorso da seminarista è lungo. Per diritto canonico occorre che il corso di teologia duri almeno 4 anni e che prima dell’ordinazione si sia stati in seminario almeno 4 anni (anche se il vescovo può derogare a questa seconda parte).
Sono almeno quattro di fondo i motivi che possono essere concausa della scarsità di vocazioni: la crisi demografica occidentale, la progressiva secolarizzazione, il volontariato che occupa spazi prima specificatamente ecclesiali, l’appannamento dell’identità del sacerdote nella società. A fronte della caduta verticale con percentuali drammatiche nell’area occidentale (con oscillazione di banda tra 40% e 17% in meno) fa da contrappeso l’aumento delle vocazioni in Asia e Africa.
Dalle statistiche della Chiesa cattolica diffuse pochi giorni fa dall’agenzia Fides emerge nel mondo il calo dei seminaristi maggiori, diocesani e religiosi, quest’anno diminuiti, globalmente di 1822 unità, attestandosi alla cifra di 114.058 unità. Gli aumenti si registrano solo in Africa (+509). I seminaristi maggiori diocesani sono 68.609 (-1350 rispetto all’anno precedente) e quelli religiosi 45.449 (-427). Anche il numero totale dei seminaristi minori, diocesani e religiosi, per il quarto anno è diminuito, quest’anno di 3.174 unità, raggiungendo il numero di 96.990. Sono diminuiti in tutti i continenti ad eccezione dell’Oceania (+22).
E poi ci sono, ma è un altro discorso, le migliaia di religiosi (furono 2mila nel solo 2017) che abbandonano ogni anno, e molti lo fanno per ragioni affettive. Uomini e donne che scelgono di dedicarsi a Dio all’interno dei tanti istituti religiosi e congregazioni dunque, non reggono e dopo poco tempo abbandonano inesorabilmente la strada.