Bruxelles (Marianna Malpaga di Il Dolomiti) – I datori di lavoro dell’Unione Europea possono vietare ai propri dipendenti di indossare ogni simbolo che richiami la loro appartenenza politica, ideale e religiosa. La decisione è stata presa giovedì 15 luglio dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha anche aggiunto che questo provvedimento “può essere giustificato dal bisogno del datore di lavoro di presentarsi in modo neutrale nei confronti dei clienti o di prevenire conflitti sociali”. Il provvedimento, ha detto la Corte, deve prendere in esame caso per caso la situazione del Paese in cui ci si trova e i “bisogni reali” del datore di lavoro. Si va comunque a confermare una precedente decisione della Corte, che risale al 2017, e che permette ai datori di lavoro di chiedere ai propri dipendenti vestirsi in modo “neutro”. Una decisione molto criticata, soprattutto per gli effetti sulle donne musulmane, che, secondo alcuni, sarebbero sproporzionati.
“Spero che si possa fare ricorso contro questa sentenza”, il commento di Nibras Breigheche, tra i fondatori dell’Associazione islamica degli Imam e delle Guide religiose e figlia del presidente della Comunità islamica del Trentino. “Se parliamo di simboli religiosi, c’è un errore terminologico alla base di questa decisione – prosegue -. Il velo non è un simbolo religioso, anche se spesso viene equiparato alla croce cristiana che qualcuno porta al collo. È una pratica religiosa che dev’essere anzitutto basata su una scelta della persona. Le pratiche religiose devono essere libere: non possono essere imposte, ma neanche vietate. Quindi non posso imporre a nessuno di portare il velo; ma non posso neanche imporre a nessuno di toglierlo. È scritto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma è sancito anche dalla Costituzione italiana, che vieta solo le pratiche contrarie al buon costume. Non mi pare però che portare qualche centimetro di stoffa sulla testa, che si chiami velo o in qualsiasi altro modo, rappresenti una pratica contraria al buon costume”.
Secondo Breigheche, quindi, la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea rappresenta “una discriminazione”. Non solo contro chi professa una religione ma, nel caso della fede musulmana, anche contro le donne. “Saranno loro, che già soffrono di percentuali di disoccupazione più elevate, a pagare il prezzo di questa sentenza – prosegue -. Una decisione di questo tipo non fa altro che metterle in difficoltà ancora di più”. L’uomo, secondo la religione musulmana, in pubblico deve essere vestito in modo che sia coperta almeno la parte di corpo che va dalla vita alle ginocchia. “Difficilmente si vedranno al mare degli uomini di fede musulmana con un costume ‘a mutandina’: i musulmani praticanti indosseranno avranno tutti i dei bermuda, che coprono le cosce”, specifica Breigheche. È chiaro però che quest’indicazione non interessa la decisione presa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.