(Gianfranco Ravasi di San Francesco patrono d’Italia) – Nel 2015 Sandro Veronesi, di cui tutti ricordano il fortunato romanzo “Il colibrì”, pubblicava un libro dal titolo curioso, “Non dirlo”. Egli era sollecitato da un aspetto sorprendente del Vangelo di Marco, ossia quella consegna del silenzio che Gesù impone ai suoi miracolati. È quella categoria che gli esegeti definiscono come “segreto messianico”, formula coniata dal tedesco Wilhelm Wrede (1859-1906) che l’aveva considerata una sorta di chiave di volta della cristologia marciana. La tesi fu accolta da molti, contestata da altri, rielaborata da alcuni, rimane però un dato piuttosto inatteso e reale nel Vangelo ritenuto il più antico dei quattro, impostato appunto su una progressiva rivelazione della figura del protagonista, Gesù di Nazareth.
Il supremo svelamento del mistero divino che s’annida in questo predicatore e guaritore galileo è, infatti, compiuto in pienezza solo quando egli è vittima di una condanna a morte infame, quella per crocifissione, allora riservata a schiavi e a terroristi, avvenuta su una modesta altura gerosolimitana, il Golgota, in latino Calvario (cioè “Cranio”). A pronunciare quella definizione-professione di fede è un pagano, il centurione romano che aveva diretto ’esecuzione capitale: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (15,39). Infatti, l’opinione dominante tra gli studiosi è che il Vangelo di Marco sia stato composto forse a Roma per destinatari che muovevano i primi passi nella conversione al cristianesimo, tra il 67 e il 69. Egli probabilmente era quel Giovanni Marco citato negli Atti degli apostoli e ritenuto nel II secolo da un antico vescovo della Frigia, di nome Papia, “interprete di Pietro”.
Abbiamo evocato questo Vangelo – che dà il titolo anche all’emozionante decimo e penultimo racconto del Manoscritto di Brodie (1970) di Borges – perché nell’anno in corso chi entrasse la domenica in una chiesa ascolterebbe costantemente nella Messa una selezione di brani di questo scritto di 11.229 parole greche, il più breve e il più secco dei quattro Vangeli. Poco considerato in passato, perché surclassato dal più ricco testo di Matteo (“Marco è il valletto e il compendiatore di Matteo”, non esitava a scrivere sant’Agostino), nell’esegesi recente ha, invece, acquistato un rilievo marcato, tanto da ricevere le attenzioni di molti commentatori:
Noi ne abbiamo in passato segnalato vari, a partire da quello di Giacomo Perego, un’opera capace di sintetizzare l’itinerario precedente della ricerca marciana (San Paolo 2011, pagg. 364), a cui è seguita la versione italiana del commento francese di Elian Cuvillier, proposta dalla Comunità di Bose (Qiqajon 2011, pagg. 480). Chi ha sparigliato un po’ le carte è stato il fiammingo Benoît Standaert, dopo una trentina d’anni di studi su Marco (Dehoniane 2021, pagg. 935). Secondo la sua ipotesi, il Vangelo sarebbe una sorta di genere letterario giudaico in forma cristiana, ossia un racconto rituale da leggere integralmente nella notte di Pasqua, durante la Veglia nella quale si amministravano i battesimi. Sarebbe, quindi, un percorso di iniziazione alla fede: tra l’altro, non si deve dimenticare che non di rado il Vangelo di Marco è stato letto di seguito integralmente nei teatri o nelle chiese in una sola serata (così ha fatto più volte il compianto attore Franco Giacobini e nel 1995 Massimo Popolizio nella cattedrale di Prato).
Tra l’altro il citato Sandro Veronesi dal suo Non dirlo ha tratto un monologo teatrale ritenendo che questa fosse la finalità dell’opera marciana, una comunicazione orale “da bocca a orecchio, con la fondamentale messa in gioco del corpo e del contatto visivo tra autore e uditore”. Proseguendo nella lista dei commentari recenti, devono essere segnalati necessariamente i due capisaldi del belga Camille Focant (Cittadella 2015, pagg. 714), che abbiamo a suo tempo recensito su queste pagine, e dell’imponente dittico dell’americana Adela Yarbro Collins dell’università di Yale dal taglio squisitamente storico-critico (Paideia 2018-2019, pagg. 1349).
Concludiamo questa rassegna essenziale con la guida di lettura poderosa di Paolo Mascilongo (Città Nuova 2018, pagg. 968). Egli prima analizza il testo versetto per versetto col conseguente apparato linguistico, grammaticale e semantico; fa subentrare il commento dei brani nella loro unità autonoma ma anche nella relazione al corpus dell’opera integrale; infine, apre squarci tematici specifici, incastonati nella sequenza del testo. Il taglio generale è tendenzialmente narratologico, così da far emergere i due protagonisti in azione, Cristo e i discepoli, che provocano idealmente il lettore attraverso le loro vicende.
Marco per noi italiani è legato a Venezia, anche se la tradizione antica lo voleva primo vescovo di Alessandria d’Egitto. La leggenda, infatti, ha fatto navigare le sue reliquie verso la città lagunare nel IX secolo. Tutti ricordano la colonna sormontata dal leone, suo simbolo, nella piazza della basilica a lui dedicata, mentre altri avranno negli occhi la pala del Tiziano per la chiesa della Salute (1511) o le tele del Tintoretto per la Scuola di San Rocco (1548-49), ora conservate nelle Gallerie dell’Accademia. Certo è che la migliore testimonianza dell’evangelista è nei 16 capitoletti del suo scritto scarno eppur vivace la cui (ri)lettura consigliamo anche ai lettori di oggi che vi ritroveranno forse nel suo dettato severo ed essenziale un certo stile quasi giornalistico.