(Antonio Salvati di Globalist) – Lo scorso anno la scrittrice indiana Arundhati Roy scrisse che la pandemia è un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo scegliere “di attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, dei nostri pregiudizi, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e i cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo”.
Paolo Bartolini e Lelio Demichelis, autori del raffinato volume La vita lucida. Un dialogo su potere, pandemia e liberazione (Jaca Book 2021 pp. 208, € 20), hanno raccolto la sfida e hanno cercato, attraverso il loro fecondo dialogo, di comprendere il passaggio storico che stiamo attraversando. Un percorso insidioso, immerso nella confusione di un cambiamento incessante che nulla cambia davvero, anche a causa della scarsa capacità di leggere il nostro tempo che “conduce all’impotenza e a una forma di sopravvivenza tecnicamente ed economicamente assistita, priva di consapevolezza e interezza”.
L’evento della pandemia da coronavirus consente – per i due autori un’opportunità per ripensare il nostro futuro e soprattutto il nostro posto all’interno degli ecosistemi che ci ospitano, “per elaborare e condividere un nuovo modo di co-esistere con la biosfera e con gli altri/Altro; per immaginare una scienza (e una tecnica) non piegata a (e piagata dal) profitto; per recuperare un principio di responsabilità e di precauzione che siano principi di una razionalità nuova, ma anche di relazione empatica con gli altri, con il mondo e con il futuro radicalmente diversa da quella positivista-industrialista”. In altri termini, occorre riformulare il pensiero critico, ossia un pensiero complesso capace di guardare avanti, evitando di restare appiattiti su un “qui e ora” privo di spessore e di relazioni.
Il libro ci aiuta a comprendere a fondo dove ci troviamo, in che contesto e dentro quale campo di forze. Un utile analisi della realtà, indispensabile per riconoscere i dispositivi principali di un sistema di potere che influenza le nostre vite, le disciplina e le uniforma. I due autori si soffermano, in particolar modo, sul termine “tecno-capitalismo”, un concetto molto importante che efficacemente descrive un dato di fatto: nel presente la tecnica è totalmente al servizio del capitale. Tecnica e capitalismo – spiega Miguel Benasayag nella postfazione – non sono separabili, “formano una unità che impedisce al momento ogni possibile liberazione. Consustanziale al capitalismo, l’apparato tecnico delle macchine industriali e digitali opera fuori da qualsiasi orizzonte di senso e non rappresenta in alcun modo uno strumento di emancipazione”.
Necessario è cambiare paradigma non tanto economico quanto antropologico del tecno-capitalismo che produce e continuamente riproduce una specifica antropologia («ci formatta, ci ingegnerizza ad adattarci alle proprie esigenze produttivistiche, sfruttatrici di uomini e natura»). Contestualmente serve ripensare il pensiero neoliberale. L’individuo neoliberale non è più soggetto autore della propria vita, come ci si era illusi agli inizi del liberalismo. In realtà, come ha scritto Michel Foucault, “la modernità ha inventato la libertà ma anche le discipline di assoggettamento e soprattutto di inserimento controllato e controllabile dell’uomo, da rendere utile e docile» nel sistema capitalistico. E ogni consumatore, ogni lavoratore, ogni partecipante ai social è come un Peter Pan che non deve crescere, «ma – spiega Demichelis – deve continuare a credere di poter giocare come un bambino, appunto nella ripetizione sempre di nuovo del sempre uguale tecno-capitalista”.
Attenzione a credere che l’orizzonte neoliberista sia esclusivamente il risultato di un piano architettato dalle élite del capitalismo finanziario. Lo è anche, ma c’è altro che ci sfugge. Come suggerisce Miguel Benasayag, nell’era della complessità ci troviamo a impattare con vere e proprie “strategie senza strateghi”, ovvero con una molteplicità di pratiche di potere che non sono regolate interamente da progetti coscienti, bensì finiscono per riprodursi automaticamente, sottraendosi in buona parte alle intenzioni umane. Le tecnologie digitali rappresentano molto bene questa natura incontrollata e acefala dei meccanismi di dominio contemporanei.
Il sociologo Luciano Gallino nel 2011 affermava che “oggi la grandissima maggioranza della popolazione è totalmente esclusa dalla formazione delle decisioni che ogni giorno si prendono» nei settori dell’economia. La grande impresa può decidere a propria totale discrezione che cosa produrre, dove produrlo, a quali costi per sé e per gli altri e «il potere esercitato dalle corporation sulle nostre vite configura un deficit di democrazia da costituire ormai il maggior problema politico della nostra epoca». E certamente questo potere (strategico, di strategia) è oggi concentrato soprattutto (ma non solo) – spiega Demichelis – “nell’oligopolio (anche politico/antropologico) del Gafam (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft) a sua volta composto da imprese monopolistiche nei rispettivi settori di produzione/servizio ma soprattutto di ingegnerizzazione comportamentale (Amazon per il commercio e il consumismo, Apple e Microsoft per hardware e software, Google per la conoscenza e l’informazione, Facebook per i social)”.
Il controllo della e sulla società è caratterizzato soprattutto dall’azione di imprese private, che usano i nostri dati come nuovo petrolio. Continuamente manifestiamo la paura del controllo statuale (quante volte si è parlato in questi mesi di dittatura sanitaria), ma non ci opponiamo – anzi lo consideriamo normale – al controllo privato. Abbiamo la paranoia del complottismo e del negazionismo e preferiamo fuggire dalla realtà e dalla libertà. Molti ricordano quanto aveva scritto Erich Fromm su questa tendenza umana a “fuggire dalla libertà» per – concordano gli autori – «accucciarsi davanti all’uomo forte; oggi essa è ri-declinabile in termini di fuga dalla libertà entrando nel totalitarismo tecno-capitalista, l’ultima frontiera del totalitarismo e del conformismo; dove anche le fake news e la post-verità sono l’espressione di una disperata paura della libertà e dell’autonomia, ma anche effetto della ormai (quasi) pienamente realizzata indistinzione/indifferenza, tipica di ogni totalitarismo, tra vero e falso, tra reale e virtuale-irreale, della relativizzazione della realtà e dei valori”.
Il potere addestra, ingegnerizza il consenso e i comportamenti, avvertono Bartolini e Demichelis. Può essere potere politico (sempre meno) e (sempre più) tecnico ed economico. Il potere (economico, politico, tecnico, d’impresa, di rete, religioso, nostro sugli altri, in famiglia, nei gruppi, in rete), ha paura della libertà e dell’autonomia degli uomini; ma d’altra parte, gli uomini – come ci ha ben spiegato Fromm – spesso hanno paura della libertà e preferiscono fuggirne facendosi liberi servi come il titolo di un bellissimo saggio di Gustavo Zagrebelsky del 2015, Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere.
Come resistere al tecno-capitalismo che è davvero una sorta di religione con il proprio catechismo, la propria pedagogia e la propria Inquisizione? Come “restare umani”? Certamente serve un nuovo umanesimo di cui gli autori tracciano i contorni. Un umanesimo fatto di «gentilezza (e una sensualità da mettere anche nel nostro rapporto con gli altri e con la biosfera), quindi cura, solidarietà, responsabilità e lungimiranza sono le basi etico-morali (neo-umanistiche) per non morire tecno-capitalisti. E di tecno-capitalismo”. Ha scritto recentemente lo psichiatra Eugenio Borgna la saggezza è gentilezza: “L’epoca in cui viviamo è sostanzialmente estranea ai valori della saggezza e della gentilezza, della tenerezza e della delicatezza, considerate arcaiche e inadeguate alle finalità e ai ritmi febbrili della vita di oggi; e nondimeno non c’è cura, cura dell’anima e cura del corpo, se non è intessuta di saggezza e di gentilezza che nascono dal cuore dell’interiorità e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità e di solidarietà. La gentilezza è un ponte che ci fa uscire dai confini del nostro Io e ci fa partecipare all’interiorità, alla soggettività degli altri, è sorgente di conoscenza e di esperienza, ci avvicina alla solitudine, ne lenisce le ferite e, come la saggezza, ci mette in comunicazione con il destino di chi soffre nel silenzio e nell’angoscia. (…) e come pensare a una saggezza che non sia gentile e non sia scandita dal senso della misura e del rispetto dell’altro?”.
Rivoluzionaria è quindi la saggezza; anche la gentilezza. E la mitezza secondo Norberto Bobbio, che amava le persone miti perché “sono quelle che rendono più abitabile questa aiuola, tanto da farmi pensare che la città ideale non sia quella fantasticata e descritta sin nei più minuti particolari dagli utopisti, ma quella in cui la gentilezza dei costumi sia diventata una pratica universale”. Con una specificazione, la mitezza non è da confondere con la rassegnazione o la remissività, perché è una virtù apparentemente debole, propria di chi non ha potere, ma è allo stesso tempo potente anticipando un mondo migliore sulla Terra.