(da L’agone Nuovo) – “Se Gerusalemme non può essere capitale di due Stati, allora che lo diventi di uno Stato binazionale. In questo modo, i Palestinesi possono mettere in difficoltà l’ultradestra nazionalista israeliana e al tempo stesso individuare un terreno comune di azione con quella parte dell’opinione pubblica israeliana che ancora crede nel dialogo ma che non scenderà mai nelle strade per dire no a Gerusalemme capitale d’Israele. Capitale, sì, ma di quale Israele? L’Israele che in nome di una purezza identitaria istituzionalizza un regime di apartheid a cominciare da Gerusalemme? O è un Israele che scegliere di essere una democrazia compiuta e non una etnocrazia, e allora ha solo una via da imboccare: quella di uno Stato binazionale, con Gerusalemme sua capitale”.
A parlare è il più autorevole storico israeliano, più volte premiato in patria e nel mondo, già professore all’Università ebraica e alla Sorbona di Parigi: Zeev Sternhell.
Sternhell è autore di opere fondamentali, che hanno fatto molto discutere, sull’ideologia fascista e sul sionismo (Nascita dell’ideologia fascista, Né destra né sinistra, Nascita di Israele, Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra fredda, ( tutti pubblicati da BCD editore)
Professor Sternhell, Gerusalemme è tornata al centro dell’attenzione internazionale dopo la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump di riconoscerla come capitale unica e indivisibile d’Israele. In molti hanno detto e scritto di un “regalo” di Trump al premier, e amico personale, Netanyahu. E’ anche Lei di questo avviso?
”Se di ‘regalo’ si tratta, allora direi che può rivelarsi un regalo ‘avvelenato’. In realtà, penso che la decisione assunta dal presidente americano più che da un desiderio di far piacere a Israele sia stata dettata da ragioni interne. E qui mi permetta una digressione che non è semantica ma sostanziale…”.
Vale a dire?
”Quando si parla di potere di pressione si presidenti Usa, ma il discorso potrebbe allargarsi anche all’Europa, si fa sempre riferimento alla cosiddetta ‘lobby ebraica’. A parte che in certi riferimenti traspare un malcelato antisemitismo, il fatto è che in America ad essere i più tenaci sostenitori della scelta su Gerusalemme non sono state le organizzazioni ebraiche statunitensi, parte delle quali si sono anzi dichiarate in disaccordo, ma i fondamentalisti cristiani che molta presa hanno su figure di primo piano dell’amministrazione Trump. Detto questo, per tornare a Gerusalemme, dico che molto dipenderà dalla capacità della dirigenza palestinese di cogliere il momento e scegliere tra la testimonianza che nulla smuove e la politica che può cambiare il corso degli eventi. E sono in momenti come questi che si misura la statura di una classe dirigente. Vorrei essere estremamente chiaro, e anche un po’ brutale, su questo punto che reputo davvero cruciale: se la posizione palestinese resterà quella di denunciare la forzatura unilaterale su Gerusalemme, sostenendo, come ha ripetuto più volte in questi giorni, che gli Stati Uniti hanno cessato di essere mediatori accettabili, difenderà un principio, magari giusto ma destinato a restare tale. Perché questa reazione era stata messa in conto dalle destre che governano oggi Israele, e perché, e qui vale il sano principio del realismo, se l’America non è più un mediatore affidabile, credibile, chi altri potrebbe esserlo? L’Europa, inesistente, purtroppo, come entità politica unitaria? La Russia di Putin?…”.
Ma su Gerusalemme, potrebbe ribatterle Abu Mazen, i Palestinesi hanno con sé il mondo arabo e quello musulmano…
A parole. Da storico consiglierei al presidente Abu Mazen di far tesoro della storia che dal 1947 arriva ai giorni nostri. Una Storia costellata da presidenti e rais arabi che hanno usato per i propri fini di potere i Palestinesi, la loro causa, salvo poi abbandonarli al loro destino. Non c’è un leader arabo, con l’eccezione di Sadat, che non abbia usato la causa palestinese per propaganda interna o per giustificare, ricordiamo Saddam Hussein, atti di forza contro altri Paesi arabi. Vede, a differenza di altri analisti e studiosi israeliani, io non credo che il movimento palestinese sia morto o in via di disfacimento. Tante volte in passato avevamo pensato questo e, chi era al governo, lavorato a questo, ritenendo che una leadership palestinese debole e divisa potesse essere meglio gestibile e contenuta. Personalmente ritengo che sia stato un errore strategico, come è stato quello di puntare sulle divisioni interne al campo palestinese. Un Grande d’Israele, Yitzhak Rabin, ammise che fu un errore quello di pensare, all’inizio della prima Intifada, di allentare il controllo su Hamas perché la crescita di quel movimento poteva indebolire l’Olp di Arafat. Una leadership debole, delegittimata, finisce per essere condizionata da forze estremiste e non sostituita da dirigenti più ‘morbidi’ e accondiscendenti. Ma questa è Storia. Oggi la situazione di stallo può essere sbloccata dall’azione politica e non da rivolte di piazza. E le carte da giocare sono in mano palestinese”.
Da dove partire per giocare questa partita?
Da Gerusalemme. E dalla scelta di Trump. Il presidente degli Stati Uniti l’ha riconosciuta capitale unica e indivisibile di Israele? Ma di quale Israele? A Gerusalemme vivono oltre 300.000 palestinesi. Sono anche loro parte della ‘capitale’? Se la risposta è affermativa, allora ne consegue che ad essi devono essere riconosciuti gli stessi diritti di tutti gli altri cittadini di Gerusalemme. Diritti sociali, diritti politici, diritti elettorali. Altrimenti Gerusalemme diverrebbe la capitale dell’”apartheid’. Ed è questo il punto su cui la destra oltranzista dei Bennett e Lieberman può essere messa in crisi, battendosi per fare di Gerusalemme la capitale di uno Stato binazionale”.
Ma uno Stato binazionale, un tema che è stato al centro di una intervista concessa a chi scrive da Abraham Yehoshua, non metterebbe in crisi, per ragioni demografiche prim’ancora che ideologiche, l’idea dello Stato d’Israele come focolaio nazionale del popolo ebraico?
Questa visione fa parte di quei ‘miti’ d’Israele che il corso della Storia, oltre che una sua attenta lettura, ha messo in discussione se non smantellato del tutto. Certamente il pionierismo sionista ha avuto una forte componente nazionalistica, ancora più incidente di quella ‘socialista’, incarnata nel modello dei kibbutz, ma il nazionalismo dei padri fondatori d’Israele non era segnato da una dimensione etno-religiosa, da ‘popolo eletto’ con una Missione da compiere. La sfida del sionismo era duplice: edificare uno Stato per gli Ebrei e realizzarlo su solide basi democratiche. Questo secondo aspetto non appartiene, al revisionismo sionista che ebbe in Zeev Jabotinsky il suo ispiratore e nel padre dell’attuale primo ministro uno dei più convinti assertori: quel messianesimo nazionalista, la convinzione che la Sacralità della Terra è più importante dei caratteri dello Stato, è la base ideologica che ispira la destra oltranzista israeliana e il suo agire politico. Il sionismo non può dirsi compiuto se si fonda sull’oppressione. Di questo ero e rimango fermamente convinto. Ma a distanza di tanti anni, temo che questa affermazione, se sganciata dalla politica e dal momento storico, finisca per essere un mantra che appaga la coscienza, riempie documenti, ma che non incide sui fatti e sulla vita della gente. Ecco perché dico che su Gerusalemme e sullo Stato binazionale si gioca la vita o la morte del sionismo. Perché ciò che è in discussione è la costituzione democratica dello Stato, i cui cittadini, a cominciare da quelli di Gerusalemme, non possono essere discriminati in base all’appartenenza etnica o religiosa. Se sono tutti gerusalemiti, debbono avere tutti eguali diritti…”.
Il che vorrebbe dire eleggere il sindaco e, in proiezione futura, il capo dello Stato?
Integrazione o apartheid: tertium non datur. Certo, sul piano dei principi resta la soluzione ‘a due Stati”, e qui c’è la responsabilità storica della comunità internazionale, non solo degli Stati Uniti e dell’Europa ma anche dei Paesi arabi, nel non aver forzato su questo punto quando ne era il tempo. Oggi, di fronte alla realtà degli insediamenti nella West Bank, ad una presenza di oltre 400mila israeliani-coloni, a me pare francamente improbabile, per non dire impossibile, realizzare questa soluzione. Ma a Gerusalemme come nella West Bank, non devono esistere due leggi e due misure, una per i cittadini ebrei e l’altra, penalizzante, per i palestinesi. Ritengo peraltro che la prospettiva di uno Stato binazionale democratico possa essere un terreno d’incontro, di iniziativa comune, tra quanti, nei due campi, credono ancora nel dialogo e nella convivenza. Mi lasci aggiungere che credere in uno Stato binazionale non significa che le comunità che ne fanno parte rinuncino alla propria identità. Integrazione non è sinonimo di omologazione, di azzeramento delle diversità. Io penso che siano nel giusto i Palestinesi a voler essere persone libere e di aspirare al benessere soprattutto per i giovani. Ecco, io credo che, nelle condizioni date, questa aspirazione sia più praticabile in uno Stato binazionale”.
Uno Stato binazionale di nome Israele guidato da un arabo…
Per quel che conosco della realtà palestinese, non mi pare che sul piano politico sia un monolite, tutt’altro. E non mi riferisco solo alle divisioni tra le fazioni storiche, Hamas e al-Fatah, ma penso anche a quelle che separano laici e fondamentalisti. E per quanto riguarda Israele, non ne parliamo…Voglio dire che non va dato per scontato che in uno Stato binazionale il voto sia incardinato ad un principio assoluto di appartenenza etnica, che annulli totalmente visioni diverse, spesso opposte, di società, del rapporto tra Stato e religione, di parità di genere, di pluralità culturale che attraversano sia Israele che la società palestinese. D’altra parte già oggi Israele è uno Stato che ha come terza forza parlamentare una Lista, che già nella sua definizione, Lista Araba Unita, fa riferimento esplicito ad una popolazione, quella raba israeliana, che rappresenta oltre il 20% del Paese. So bene le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli da superare, che non sono solo politici ma culturali, identitari. Ma credo anche che questo sia il momento per un Nuovo Inizio. Sin qui si è detto: due popoli, due Stati. E’ tempo di affermare ‘due popoli, uno Stato. Democratico’”.