(da settimananews.it – Brunetto Salvarani) – Una scena che ha lasciato il segno sono state le bare sui camion militari durante la pandemia. Cosa nasconde il disagio provocato da quella visione: una domanda di riti, di relazioni e di memoria?
Di fronte a un nemico invisibile ma pervasivo e potenzialmente onnipresente, in poco più di un attimo siamo stati tutti catapultati all’improvviso in una società mondiale del rischio, obbligati a ridefinire le agende e invitati dalle circostanze a rivedere radicalmente il nostro modus vivendi e le nostre priorità, scoprendoci – più di quanto già non sapessimo – indifesi, esposti, smarriti. Sul piano tanto esistenziale e psicologico quanto sociale ed economico.
Il contagio massiccio causato dal virus ci ha gettato in un panorama planetario in cui sono riemersi linguaggi sottratti all’immaginario medievale e paure di stampo apocalittico; ha favorito l’irruzione della morte nelle case e nelle famiglie, come presenza realissima o come spauracchio costantemente incombente; e, contestualmente, ci ha costretto a ridisegnare passaggi quanto mai delicati quali la gestione del lutto in assenza della salma del defunto e la pietas naturale verso i morenti.
In un quadro del genere, non c’è alcun dubbio che le colonne militari in partenza dalla bergamasca alla ricerca di uno spazio per sistemare le salme affidate loro siano assurte a immagine simbolo della pandemia vissuta nel nostro Paese: ha giocato un certo ruolo anche la reiterazione mediatizzata della notizia, in un periodo in cui eravamo tutti a casa, piuttosto attoniti davanti agli schermi, televisivi o dei nostri dispositivi.
Si è ripetuto, a buon diritto: defunti che se ne sono andati senza una stretta di mano, senza una preghiera, senza poter fruire di una rielaborazione collettiva del lutto. Tutto vero, ma mi chiedo se quanto accaduto non potrebbe risultare un’occasione preziosa per ripensare daccapo la nostra ritualità nell’arte, difficile, del congedo (e quando dico nostra, alludo sia a quella religiosa sia a quella civile), con l’obiettivo di renderla eloquente per Chiese, comunità di fede e società prive di memoria e incapaci di produrre germi di futuro, asserragliati come siamo nel nostro piccolo hic et nunc.
Ci ripetiamo: siamo sulla stessa barca, ma in realtà guardiamo con angoscia l’andare alla deriva della nostra personale minuscola zattera di salvataggio…
Il fatto è che, di fronte alla morte, ho l’impressione che il discorso pubblico sia sempre più afasico e impotente. È emblematico il caso del famoso borgo sardo di Porto Cervo, principale centro della Costa Smeralda, privo di cimitero: inaugurato negli anni Sessanta del secolo scorso come spazio di divertimento per eccellenza, non vi si prevede neppure l’eventualità di avere a che fare con la morte e con i morti.
La morte occultata
Qui, negli ultimi anni, il monopolio religioso nella cultura delle esequie si va progressivamente erodendo, a favore di una professionalizzazione e una privatizzazione dei cerimoniali inerenti al fine vita, con l’allargamento a macchia d’olio delle case del commiato o funeral-home, mentre sulle tombe la classica simbologia cristiana è di frequente accompagnata o sostituita da altre, provenienti da una generica religiosità naturale.
Il funerale dovrebbe essere il momento in cui i morti evangelizzano quanti rimangono da questa parte; invece, durante i riti di commiato si applaude al defunto, scorrono le sue immagini in video, e ci scopriamo, una volta di più, incapaci di abitare il silenzio, la perdita e il vuoto.
Direi che la gestione della morte avrebbe un grande bisogno di un’inedita tradizione, di una nuova e rinnovata ars moriendi di cui oggi non si percepiscono per nulla i lavori in corso. Così, si fugge davanti agli stessi riti e simboli funerari, sostituiti da pratiche sempre più spersonalizzate, prodotte in serie addolcite dalla rappresentazione kitsch di una falsa personalizzazione: una rappresentazione sempre uguale, rassicurante, autoritaria nel lessico e nei gesti rituali spesso banalmente ripetuti senza riflettervi.
– Qual è l’immagine del morire dopo il tramonto dei “novissimi”?
Secondo uno dei padri dell’antropologia culturale, il polacco Bronislaw Malinowski – era il 1925 – «fra tutte le fonti della religione, la morte, crisi suprema e finale della vita, riveste un’estrema importanza».
Egli la presentava come l’enigma che ha indotto esseri umani coscienti a divenire religiosi o animistici, a scorgere un’anima in tutte le cose esistenti e a ritenere che l’anima potesse essere emancipata dalla morte stessa, fino ad aggiungere: «La morte è l’ingresso nell’altro mondo, non solo in senso letterale. Secondo la maggioranza delle teorie sulla religione primitiva, gran parte dell’ispirazione religiosa, se non tutta, è derivata di lì; e in ciò le opinioni ortodosse sono del tutto corrette… La morte e la sua negazione, l’immortalità, hanno sempre costituito, e costituiscono tuttora, il tema centrale delle aspettative future dell’uomo».
Tra gli aspetti più scontati del cristianesimo, e tra quelli storicamente di maggiore presa popolare, c’è sempre stata la prospettiva di potersi procacciare una vita migliore nell’aldilà. Anzi, le generazioni meno giovani conservano viva la memoria di una predicazione cristiana quasi totalmente incentrata, da un lato, sulle realtà ultime e definitive e, dall’altro, sugli scenari perennemente incombenti sul vissuto quotidiano del post-mortem, detti alla latina Novissimi (il termine ha origine da Siracide 7,40). In latino, la parola novissimi non si riferisce, come si potrebbe intuire, alle cose più nuove, ma alle cose ultime, quelle finali e definitive.
Così, morte, giudizio, inferno, paradiso, ma anche il purgatorio che, in realtà, per il catechismo cattolico tecnicamente non ne fa parte – e rappresenta anzi una pietra d’inciampo in chiave ecumenica (le Chiese ortodosse, ad esempio, non credono nell’esistenza del purgatorio, e leggono severamente la scelta cattolica di inserirlo fra i possibili esiti del post-mortem) –, per lunghi secoli, sono stati posti costantemente (e dantescamente) davanti agli occhi e alle menti dei fedeli cristiani come luoghi veri e propri, situati di volta in volta realmente negli abissi sotto terra o in alto, fra le nuvole nei cieli, utilizzati come spauracchi sempre in grado di destare nei devoti pungenti preoccupazioni, sollecitudini e timori di ogni sorta.
Probabilmente anche in ragione di tali paure quotidianamente agitate nella catechesi per i bambini e nelle omelie per i loro genitori, il discorso sui Novissimi ha con il tempo finito per essere screditato, tanto che su di esso oggi sembra regnare il silenzio, un oblìo, se non persino una vera e propria rimozione, più o meno voluta e più o meno compresa nella sua portata.
Intendiamoci, il fenomeno travalica i confini di quelle che furono in passato le terre cristiane: sono le religioni nel loro complesso, un po’ tutte e un po’ dappertutto, che si trovano oggi in un discreto imbarazzo, quando sono costrette a farlo, a parlare dell’aldilà con qualche cognizione di causa.
Il morire nelle religioni
Come scrive il filosofo Roberto Mancini: «Molti sono disposti a credere in un Dio immaginato come entità suprema, pochi credono nella felicità e nella salvezza. Molti temono l’inferno, pochi sperano la risurrezione. Così, invece di accogliere la vita vera, la costeggiamo dal di fuori, feriti dalla paradossale nostalgia per ciò che ancora non abbiamo mai scoperto». Evidentemente, si tratta di una questione molto seria, e da affrontare con la dovuta attenzione (e sensibilità).
– Riguardo al morire, quali sono le differenze più significative fra tradizione ebraico-cristiana, islam e religioni orientali?
È evidente che fra la cultura e le religioni occidentali (in cui è lecito inserire le cosiddette religioni monoteistiche) e quelle orientali si siano sviluppate visioni diversificate – e quasi speculari – del dolore e della morte.
Da una parte, nel cristianesimo e nella cultura occidentale, il morire è stato percepito come un dramma unico, una tragedia che non ha eguali. La morte è la fine dell’uomo, e anche se il cristianesimo invita a pensare alla risurrezione e alla vita nuova con Cristo oltre la morte, permane immancabilmente nel cristiano un senso di fallimento, di una perdita che produce angoscia e, talvolta, disperazione.
Non si è in grado di sopportare il pensiero della morte, e spesso si è rinviato al fatto che, se ha causato paura a Gesù stesso che ha pregato il Padre, se gli fosse stato possibile, di allontanarne il calice (Lc 22,42), non si vede perché esso non debba spaventare anche i suoi seguaci.
Dal punto di vista orientale, ciò che mancherebbe all’orizzonte cristiano – su tale versante – è una visione a più ampio respiro: nel pensiero del cristianesimo si sarebbe prodotta una simile situazione di sofferenza percependo la morte come male assoluto perché si è dato un eccessivo valore all’individuo, alla persona, fino a sfociare in un antropocentrismo assoluto che tende a sconfinare pericolosamente in un assoluto ego-centrismo (è degno di nota che lo stesso papa Francesco, nell’enciclica del 2015 Laudato si’, parli di un «eccesso di antropocentrismo» nella cultura attuale, al n.115).
Ora, se tutto si concentra sull’uomo, principe del creato, è logico che, nel momento in cui l’esistenza umana subisce uno scacco di così enormi proporzioni, un simile evento venga sentito in maniera tragica, come una catastrofe irreparabile. Più l’uomo viene enfatizzato come il punto di convergenza di tutto ciò che esiste nell’universo e più la sua scomparsa individuale apparirà come innaturale e drammatica.
Dall’altra parte, un secondo atteggiamento che il cristiano – ma più propriamente l’uomo occidentale – assume nei confronti della sofferenza e della morte è un comprensibile atteggiamento di rifiuto. La morte non la si può accettare: è un non-senso radicale, anzi, il non-senso per eccellenza, per cui si fa ricorso a stratagemmi in grado in un modo o nell’altro di far sembrare che la morte non esista, o sia appena un incidente fortuito nel corso di una malattia.
L’odierna, generalizzata ospedalizzazione della morte, da questo punto di vista, andrebbe considerata un espediente per eliminarne il mistero. Scrive Edgar Morin: «Il cristianesimo è l’ultima religione di salvezza, l’ultima che sarà la prima, quella che esprimerà con più forza, con più semplicità, con più universalismo, la chiamata all’immortalità individuale, l’odio della morte. Essa sarà determinata unicamente dalla morte: il Cristo illumina ciò che riguarda la morte, vive della morte…».
Le religioni orientali, e la maggior parte delle religioni tradizionali, vivono in un’altra dimensione. La sofferenza, la pena prodotta dal dolore, la morte sono rielaborate in un altro orizzonte. La visione cosmocentrica che vi predomina ha favorito infatti la nascita di una mentalità diversa, secondo cui l’uomo è parte dell’universo e va compreso nell’insieme di tutte le altre realtà esistenti.
Non c’è solo l’uomo sulla terra, e la sua tendenza a ergersi come individuo al di sopra di ogni altra realtà terrena è appunto il suo più grave errore, che lo conduce di necessità verso il vicolo cieco della sofferenza.
Le varie forme di buddhismo, in particolare, ritengono che il culmine del dolore per l’uomo derivi dal suo attaccamento alla vita, e che non si dia via di scampo per chi si illude di uscire dall’oceano delle sofferenze accentuando la propria individualità: la vita è puro male, nella misura in cui si manifesta come attaccamento al proprio io.
L’uomo orientale, al contrario di quello occidentale, ritiene che – fino a quando si dà importanza all’ego – non saremo in grado di uscire dalla spirale del dolore e del desiderio: e proprio tale differente visione della vita lo porta anche a una diversa visione della morte. Che non andrà letta, dunque, come una tragedia, ma al contrario come una liberazione, tanto che l’uomo religioso deve imparare a morire già in questo mondo.
Il distacco dalla vita, dunque, è il segno distintivo dell’uomo religioso e del santo nel buddhismo. Per questo la morte e il dolore non andranno intesi come momenti di shock, ma tappe fondamentali nel lungo dharma della salvezza. Il samnyàsin nell’hinduismo o il bodhisattva nel buddhismo sono figure emblematiche di questo distacco dalla vita che corrisponde già a una vera morte, ma in cui si gode altresì di una pacificazione totale, in quanto l’io è stato definitivamente superato e ora esiste solo la totalità, il cosmo, o Atman, cioè il respiro universale della vita.
Il dolore e la morte, in tale concezione, non sono altro che fatti naturali non da esorcizzare, ma quasi da invocare in vista della liberazione finale. Esemplare è una preghiera della tradizione hinduista, tratta dalle Upanishad e databile attorno al 700 a.C., che recita: «Dal non essere fammi giungere all’essere;/ dalla tenebra fammi giungere alla luce;/ dalla morte fammi giungere all’immortalità».
Corpo e risurrezione
– Il vangelo parla di risurrezione della carne.
Non è raro rinvenire, nei testi dei Padri della Chiesa, riferimenti ai cristiani definiti come coloro che non hanno paura della morte (aphoberoi thanatou). Un argomento rilanciato, qualche anno fa, da papa Francesco, in una delle sue omelie mattutine a Santa Marta, il 22 novembre 2016, in questi termini: «Non piace pensare a queste cose… ma si tratta del tema-verità dell’esistenza umana: la morte e la paura di morire».
Timore che può svanire, aveva proseguito, se si resta fedeli a Dio, mettendo quindi in guardia dall’inganno dell’alienazione del vivere, cioè «come se mai si dovesse perire», esortando invece a pensare a quale «traccia lascia la nostra vita».
A ben vedere, secondo il biblista M.E. Boismard, «la rivelazione divina concernente la nostra vittoria sulla morte fu progressiva… Non ci si dovrà stupire constatando che Paolo ha potuto mutare le sue posizioni avendo meglio capito, illuminato dallo Spirito, i dati effettivi del problema. Sia detto di passaggio, Paolo mi è apparso più simpatico il giorno in cui mi sono reso conto che aveva paura della morte, pur essendo persuaso che lasciando il suo corpo avrebbe ritrovato Cristo. La morte non contempla forse, nonostante tutto, una lacerazione del nostro essere?».
Resta il fatto che non esiste tema più critico e lacerante per il primo movimento cristiano – ma potremmo allargare lo sguardo e ammetterlo, per il cristianesimo di sempre – del problema della morte e della risurrezione, in particolare della risurrezione della carne. «…ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,17): in questa considerazione paolina risiede, in effetti, il fulcro del credo cristiano.
Se non si fosse data la risurrezione di Gesù, con ogni probabilità il cristianesimo non sarebbe mai nato: la fede cristiana ha origine da quella tomba vuota, che peraltro, di per sé, non dimostra alcunché. Peraltro, ha un sapore paradossale il fatto che simboli per eccellenza del cristiano siano quasi subito diventati la croce e il crocifisso: che rischiano di nascondere il cuore del messaggio di Gesù, la sua risurrezione dalla morte.
A differenza di tanti filosofi precedenti e coevi, nella sua predicazione Gesù non si propone di elaborare alcuna teoria sulla morte (né sull’aldilà), e neppure i vangeli hanno scelto di trasmetterci le sue reazioni di fronte alle morti che si potrebbero dire normali (con l’eccezione di quella del suo amico Lazzaro di Betania, il fratello di Marta e Maria, che gli provoca commozione e turbamento, Gv 11,33).
In lui, certo, non si riscontra alcun comportamento di tipo stoico, quello sguardo sulla realtà caratteristico di chi tende a sprezzare orgogliosamente l’evento della morte; e se, da una parte, egli non apprezza le espressioni rumorose di dolore, dall’altra, sembra abbia ceduto all’emozione della perdita di un amico fraterno, lo stesso Lazzaro. Tale emozione, però, ha una sorgente assai più profonda del puro e semplice sentimento, in quanto nasce là dove sgorga la stessa vita che è Dio: Gesù è quindi nella condizione di proclamare con le parole e i fatti il proprio sorprendente dominio sulla morte.
L’analisi dei dati neotestamentari conduce a un solo messaggio risolutivo: Dio è presente qui e ora, e non abbandona mai il popolo che in lui spende la propria fiducia. Gesù è presente alla terra, fino ad amarla teneramente e intensamente: se con le parabole egli si rivela poeta della creazione, non è perché sogni ingenuamente un mondo ideale che ignorerebbe le sofferenze e la morte, ma in quanto percepisce e intende annunciare ai suoi interlocutori l’irruzione costante della vita e di ciò che chiama, sulla scorta della tradizione di Israele, regno di Dio nel qui e adesso. Un regno che possiede un’estensione inedita e inattesa, e va dall’aldilà all’aldiqua, dal futuro all’ora, più come evento che come segno.
A proposito della risurrezione, va detto che la migliore teologia vi sta riflettendo a fondo, cercando coraggiosamente di rileggere quel grande mistero nelle coordinate del nostro tempo e della nostra sensibilità culturale: è quanto si propone, ad esempio, il teologo galiziano Andrés Torres Queiruga, al quale si può rimandare per verificare lo status quaestionis al riguardo (Ripensare la risurrezione, EDB 2007).
I primi cristiani colsero quell’evento come il sigillo che Dio – quel Dio che è amore (1Gv 4,16) – decise di porre definitivamente all’esistenza di Gesù, che, a sua volta, era stata segnata nel profondo dall’amore. Perché, come rileva Luciano Manicardi, «se Gesù è risorto non è perché di natura divina, ma anzitutto perché la sua vita umana, umanissima, limitata, che ha conosciuto sofferenze e infine la morte, è stata una vita di agape, di amore fino a dare la vita».
– Si può recuperare qualche traccia della riflessione teologica del secolo scorso avente per tema il morire?
Si potrebbe parlarne come di un vero e proprio ritorno di fiamma, tanto da far dire che saremmo di fronte non più a una “morta gora”, come sembrava, ma, al contrario, al focolaio di disordini della teologia del Novecento (semmai, ci dovremmo domandare perché, a una teologia così movimentata e potenzialmente stimolante, non corrisponderà una parallela ripresa di interesse a livello popolare).
In realtà, posto che la riflessione cristiana sull’aldilà non può che essere – per motivi intuibili – un insistito work in progress a tutto campo e mai definitivamente esaurito, la prima novità al riguardo, sul versante teologico, è il passaggio da un’escatologia intesa come argomentazione sulle cose ultime (il tradizionale trattato De novissimis, posto di regola in conclusione agli studi teologici) a un’escatologia affrontata sistematicamente e collegata direttamente alla storia della salvezza.
Dopo la morte
La seconda sorpresa è che, insospettabilmente, nella stagione della modernità, della scienza e della tecnologia sempre più centrali nella vita quotidiana dell’umanità occidentale, di quanto si verificherà a ogni uomo nel post mortem, e di quanto accadrà al mondo intero alla fine dei tempi, si riprende a discutere con passione da parte della teologia accademica: fino a inaugurare una fase di riflessioni destinata a protrarsi a lungo, e a coinvolgere alcune delle menti migliori delle varie Chiese. Su due linee, fondamentalmente, su cui i teologi, alla fine, tendono a concordare.
Da una parte, il cristocentrismo assoluto dell’escatologia: è la risurrezione di Gesù Cristo l’evento storico per eccellenza, e la parusìa non sarà altro che il dispiegarsi definitivo della stessa risurrezione nell’umanità e nel cosmo; ma un’iniziale partecipazione a tale evento avviene sin d’ora, mediante l’azione dello Spirito.
Dall’altra, il suo antropocentrismo: l’escatologia non va intesa come una fisica o una topografia del futuro (i Novissimi non sono spazi né ambienti!), ma come l’incontro con Gesù risorto che, a tempo debito, coinvolgerà tutto l’uomo e tutta l’umanità. Il mutamento di sensibilità è evidente: dalla considerazione degli eventi finali, delle cose ultime considerate in se stesse, al privilegiare la realtà ultima in quanto tale, per cui l’intera storia umana è ora vista nella prospettiva del suo futuro finale.
Fra i tanti teologi qui citabili, mi limito a ricordare la poderosa riflessione dello svizzero Hans Urs von Balthasar, definito da Henri de Lubac «l’uomo più colto del nostro tempo», che tornerà più volte sulla questione escatologica. Ciò che lo muove nell’occuparsene è, in primo luogo, la convinzione secondo cui non sarebbe più differibile per la teologia il compito di liberare l’escatologia dalle rappresentazioni cosmologiche e dal dominio del figurativo, nella certezza che essa non abbia ancora esaurito di esplorare compiutamente la considerazione di Agostino per cui «il nostro luogo, dopo questa vita, è Dio stesso».
Ed è ancora lui a dichiarare apertamente, già nel 1960, che nell’ufficio escatologico, «nonostante le tendine ancora abbassate e l’insegna: Chiuso provvisoriamente a causa di ricostruzione, c’è un’intensa attività in sviluppo»; anzi, «fa le ore straordinarie».
Il piano scelto da von Balthasar per iniziare il suo (gravoso, indubbiamente) proposito è quello antropologico: nel senso che gli sembra necessario partire da Dio e dalla Trinità perché emerga saldamente il valore delle affermazioni sull’escatologia capaci di parlare all’uomo d’oggi e alla cultura attuale.
Infatti, sostiene in un passaggio decisamente ispirato: «È Dio il fine ultimo della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da Lui, il purgatorio per chi è purificato da Lui. Egli è Colui per il quale muore tutto ciò che è mortale e che risuscita per Lui e in Lui».
Ogni elemento dei Novissimi, secondo von Balthasar, non è uno spazio né un luogo, bensì una situazione antropologica, una dimensione specifica del rapporto fra Dio e l’uomo.
Vale la pena di segnalare che, negli ultimi anni di vita, von Balthasar sarà coinvolto – dopo la pubblicazione nel 1984 di un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, intitolato Piccola catechesi sull’inferno – in una discussione piuttosto aspra che vedrà protagonisti tanto riviste specializzate quanto singoli teologi.
Qui von Balthasar sceglie di ribadire con convinzione che, alla fine, è legittimo sperare per tutti: «L’amore non può che sperare la riconciliazione di tutti gli uomini in Cristo. Una simile speranza illimitata è cristianamente non solo permessa, ma comandata».
– Come comporre il sogno moderno dell’eternità e il “dire la morte” delle fedi per capire la vita?
Negli ultimi decenni, la cultura occidentale ha elaborato una serie di teorie che, in sintesi, si potrebbero ricondurre all’ipotesi di lavoro di un uomo post-mortale.
È quanto sostiene, fra gli altri, in un libro di vari anni fa, lo storico Aldo Schiavone, a partire dagli eccezionali progressi fatti dalla tecnica, Storia e destino (Einaudi 2007). La sua tesi è che la civiltà occidentale ci avrebbe condotto, attraverso l’estremo, vertiginoso tratto del suo cammino, sul bordo finale di una soglia oltre la quale ci attende un passaggio sì denso di rischi, ma anche di straordinarie opportunità.
Da quell’orlo, l’esperienza del rapporto fra passato e futuro – l’implacabile freccia del tempo – si manifesterebbe all’improvviso sotto una forma del tutto inedita, che richiede un esercizio di ragione e di realismo, capace di separare previsione e apocalisse, e di rivoluzionare completamente noi stessi.
L’irradiamento della tecnica, infatti, è ormai totale e generalizzato, e coinvolge al massimo l’insieme del nostro vissuto: dalla politica al lavoro, fino alla costruzione delle personalità individuali. Uno scenario nel quale è assai probabile che le nostre generazioni, e ancor più quelle dei nostri figli e nipoti, potrebbero addirittura essere le ultime a fare i conti in modo generalizzato con l’esperienza della morte, nei termini in cui la nostra specie l’ha incontrata finora, culturalmente elaborati mediante uno sforzo durato migliaia di anni: «Voglio dire la morte come un evento inevitabile, spontaneo e indeterminato, che si produce sempre in modo (relativamente) imprevisto e repentino – anche se a volte lungamente e tormentosamente preparato e atteso. La morte, insomma, come fatto naturale assoluto, enigmaticamente simmetrico all’opposta naturalità del nascere del tutto sottratto al nostro controllo e al nostro potere di valutazione e di scelta».
Di società post-mortale, in realtà, dunque, si sta discutendo da tempo. Uno dei contributi chiave al dibattito in corso è offerto dalla sociologa canadese Céline Lafontaine, significativamente intitolato, nella traduzione italiana, Il sogno dell’eternità (Medusa 2009).
È Lafontaine che ha coniato l’espressione post-mortale, in riferimento alla nostra società. Dal suo punto di vista, senza dubbio suggestivo, la nozione di post-mortalità riguarderebbe la volontà ostentata di vincere – grazie agli avanzamenti della tecnica, appunto – la morte, di vivere senza invecchiare, prolungando indefinitamente l’esistenza.
Uno scenario in cui si mescolano l’aumentata speranza di vita media concessa a donne e uomini del tempo presente (soprattutto occidentali) e i successi di una ricerca medico-scientifica che affronta sempre più spesso la morte come una malattia da rimuovere e debellare, e che rende attualmente l’ascolto della parola della morte sempre più raro e difficile.
Così, emblematicamente, lo stesso termine morte sembra espulso dal linguaggio comune: chi muore, oggi, è scomparso, o volato in cielo, o si è spento, oppure ci ha lasciato e non è più tra noi, è mancato o passato a miglior vita, e così via.
Eufemismi in cui, da una parte, traspare evidente il tentativo di esorcizzare collettivamente un’esperienza che spaventa e che – come già accennato – non sappiamo più affrontare con la ritualità e la gestione familiare e comunitaria che fino a un paio di generazioni fa erano la risposta comune a una situazione percepita come altrettanto normale; mentre, dall’altra, verosimilmente, si tratta appunto dell’effetto della società post-mortale, per cui la morte non è più una vicenda eloquente, in grado di far pensare e riflettere (neppure sul versante, banale ma così innegabilmente vero, del detto popolare «oggi a me, domani a te»…).
L’impressione è che non abbiamo più nessuna disponibilità ad ascoltarne il richiamo a fare i conti con la nostra naturale finitezza; con l’irripetibilità e definitività delle nostre scelte e azioni.
L’obiettivo del mio libro – Dopo – è in questa chiave: denunciare la carenza di riflessione su quella che tradizionalmente viene definita escatologia all’altezza dei tempi, nel quadro di una cultura della postmodernità e per un cristianesimo ormai post-metafisico.
Siamo – ritengo – all’inizio di un cammino inedito anche per le diverse religioni, in quello che papa Francesco ama definire un cambio d’epoca, ancor più che un’epoca di cambiamenti.
Tra le piste possibili, mi affascina l’ipotesi di lavoro suggerita, tre quarti di secolo fa, dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer che, dal luogo di prigionia in cui era stato costretto dal nazismo, trovò il coraggio di mettere il dito sulla piaga, inaugurando in tal modo un capitolo inedito nella riflessione cristiana sull’aldilà.
Dietro il suo epistolario contenuto in Resistenza e resa, scritto in un momento drammatico della crisi europea del Novecento, affiorano domande radicali che dovremmo fare nostre. Ha ancora senso il cristianesimo in una situazione in cui gli antichi novissimi sembrano assenti? Quale messaggio rimane? Può darsi un cristianesimo non religioso proponibile all’uomo moderno?
A ben vedere, siamo nel cuore di un paradosso: a dispetto del fatto che sulla base delle parole e dei gesti di Gesù è nata la religione cristiana, è sempre più evidente che il suo messaggio non propone necessariamente una lettura religiosa della realtà. Anzi, i vangeli non narrano la fondazione di una nuova religione, ma la generazione di una nuova umanità. Nell’aldiquà, e non nell’aldilà. Nella fedeltà alla terra, prima ancora che al cielo…
Come scriveva lo stesso Bonhoeffer, in una lettera del 30 aprile 1944 rivolta all’amico Bethge: «Per me il discorso sui limiti umani è diventato assolutamente problematico… Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile… La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio».