Gli argomenti di Oriana Fallaci sono laceranti come lame di coltello, ci si ferisce tanto quanto feriscono gli altri. Ma la sua grandezza è nell’esser stata una donna di passioni. Ovvero di volta in volta distaccata e integrata, ricca e povera; della povertà di ieri fare la ricchezza di domani. Il suo libro, i suoi articoli sull’urgere assassino di un Islam guerriero sono un documento irrimediabile che porta l’orribile palpitazione di un attimo. Ha fatto urlare, ci fa urlare. Quante righe vorremmo modificare. Ma è impossibile. Allora… Nel deserto, ai confini dell’Eufrate, forsennati dominati da vizi e passioni senza scampo, ancorati ai binari fissi della lotta brutale, le fermentazioni di un Islamismo decomposto, ricostruiscono il califfato di Omar. Califfato: la parola formidabile è in voga dal Vicino Oriente al Maghreb. E si preparano, sotto i nostri occhi transigenti e accomodanti, a riempire i giorni futuri, generosamente, fino all’orlo, di fumo di martiri di orrore. Gli appelli occidentali al cessate il fuoco, alla diplomazia, appaiono timidi tentativi di mettere argini di sabbia a un uragano. Il califfato non è un sogno di fanatici antiquati che si sberrettano a un dio crudele. È un progetto politico preciso che divampa con sfacciata petulanza, ha mezzi economici, scadenze. E un esercito. Dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica c’era una sola potenza in grado di muovere una armata in diversi luoghi del pianeta, rapidamente: gli Stati Uniti. Non la Cina, non le minuscole ex potenze europee, che hanno ancora la stolta voglia di fare i terribili, i feroci, i prepotenti, ma al massimo sono capaci di combattere piccole guerre post-coloniali. Ora quest’altra forza è: il jihadismo planetario. Può spostare migliaia di sperimentati nelle scienze della morte dall’Asia centrale alla Libia, dal Sahel alla Siria, dalla Somalia all’Iraq. Nella Mezzaluna fertile dove ovunque si cammina si calpesta la Storia, nella Siria decrepita degli Assad hanno individuato il primo possibile nucleo dello Stato Islamico. Qui i confini sono ancora quelli disegnati dalla prima guerra mondiale, le spartizioni fatte a tavolino dalle mani frettolose dei diplomatici inglesi e francesi. I jihadisti decompongono pezzo a pezzo quella umiliazione remota. Annettono, eliminano, ricompongono in unità, l’unica regola dell’Islam. Qui vivono uomini minacciati, quasi sopraffatti dal Male, in un mondo che non conosce più il senso della Pietà e della Carità. Andate in Siria, invece di impancarvi da profeti, al calduccio dei caffè d’Occidente: guardate, verificate, inorridite! Poi, verrà la seconda fase: l’annessione dei Paesi delle Primavere, inceppate o già convertite al Corano. Il waabitismo, il sordo rigorismo ritualistico nato in Arabia un secolo fa, guadagna consensi nella delusione e nella miseria di quei paesi, si fa subito armato e prepotente. La parola di Dio! Un ferro rovente. Le intelligenze carnivore, le bestie feroci e astute che credono di lavorare per il guadagno di Dio, la razzia degli uomini che vivono degli uomini sono al lavoro in Libia, nel Sud della Tunisia, in Somalia, in Nigeria, in Mauritania, nell’Algeria dove l’uscita di scena del presidente Bouteflika innescherà nuove turbolenze. In Marocco la controrivoluzione preventiva del re ha solo permesso di guadagnare tempo. Nel Sahel il ritiro dei francesi riapre le porte ai gruppi dei Tuareg convertiti alla fede militante, sconfitti ma non annientati, indomabili. E poi l’Egitto, innanzitutto e soprattutto: ottanta milioni di abitanti, il Paese dove passa la storia di tutto il mondo arabo, che anticipa prova contagia da sempre, dove la condizione umana dell’Islam appare più spoglia, quasi a nudo. Il terrorismo e la rabbia delle masse dilagano dopo il golpe dei militari contro la «democrazia» dei Fratelli musulmani. Ancora errori dell’Occidente. Sostenitore di Mubarak, il faraone corrotto, ha applaudito l’Islam conservatore come a un accomodamento da comari, per poi inneggiare al Contrario, il ritorno dei carri armati, il dispotismo in uniforme che ci fa ancor più comodo. Ecco il problema: decenni di interessata e distratta convivenza con i tiranni, che tenevano sotto chiave gli Islamisti e badavano per conto nostro alla fiumana dei poveri emigranti, ci hanno tolto ogni autorità morale, abbiamo stretto troppe mani per suggerire modelli, per autorizzare democrazie. L’hanno tolta anche ai terzomondisti, che trovavano «interessante» la laicità di qualche tiranno, purché abbaiasse contro gli americani. L’Occidente è diventato marginale, inutile, debole, in un mondo che ha dominato quasi sempre senza giustizia. E la nostra viltà è permanente, non uno stato d’animo passeggero, non una sorta di raffreddore da cui si guarisce facilmente. Certo, non tutti i musulmani sono fanatici, che banalità! Il problema è che gli altri sono i tiepidi, i «mi faccio gli affari miei», i sudditi obbedienti di tutte le dittature e le prepotenze: fasciste, comuniste, tribali, Islamiche. Certo all’altro capo di quel mondo, nella piccola Tunisia dove tutto iniziò tre anni fa, altri musulmani scrivono, zitti e fieri, dopo prometeiche fatiche, una Costituzione che, ancorandosi disperatamente alla laicità e alla differenza, vuol gridare che l’Islam non è un universo immobile di capi spietati e indiscutibili, impastoiato a verità uniche, interdizioni fanatiche: che l’Islam non obbedisce sempre alla voce del Padrone. Forse quei giovani protagonisti non sono, dopo tre anni, anime asciutte, esausti come bambini dopo la fiera annuale, con volgarissimi rombi, stridori e squilli. Chi ha fatto una rivoluzione è virtuosamente contagiato, non può dimenticare ciò che ha vissuto, l’intolleranza alla rassegnazione, il «terra terra», la scoperta di un nuovo continente. E, forse, è capace di una risposta biblica al dispotismo: mai più! Ecco: per evitare di doverci battere, militarmente, contro i ricostruttori del califfato dobbiamo sperare, un’altra volta, senza merito, nel coraggio, nel gusto di cenere di una gioventù sciupata dall’oppressione, ma in piccola parte, e ancora per poco, insensibile alle strimpellature Islamiste, che scrive in Tunisia, oggi, domani forse in altri luoghi, miracolose Costituzioni: di carta.